Intervista a Leonard Bundu, il “fiorentino d’Africa” dal cuore umile

Sempre allegro e sorridente fuori dal ring, autentico leone tra le sedici corde: Leonard Bundu era così, un campione dal cuore umile e dal furore agonistico inesauribile. I suoi forcing offensivi ci hanno tenuto col fiato sospeso, i suoi montanti al fegato ci hanno fatto saltare sulla sedia, le sue battaglie all’estero ci hanno reso orgogliosi di essere italiani. Nato in Sierra Leone, ma trasferitosi a Firenze nell’adolescenza, Leonard ha dato enorme lustro al nostro Paese consacrandosi come uno dei migliori pugili di questa generazione a calcare i nostri ring.

Il “fiorentino d’Africa” è approdato al professionismo piuttosto tardi, a 30 anni già compiuti, dopo aver preso parte alla rassegna olimpica di Sydney nel 2000, ma dopo aver compiuto il fatidico salto non si è più fermato a guardarsi indietro e un gradino dopo l’altro ha compiuto la sua scalata verso la gloria. Il suo è stato un percorso classico: dal titolo italiano a quello dell’Unione Europea, dall’europeo vero e proprio alla chance da brividi all’MGM Grand di Las Vegas, tutto senza proclami o manie di grandezza, con l’umiltà e la serietà che alla fine pagano sempre.

Il suo stile arrembante e una certa tendenza a ferirsi provocarono l’interruzione anticipata di alcuni suoi match, tra cui il primo appuntamento con il tricolore, terminato senza vincitori né vinti dopo tre riprese. A fine carriera furono addirittura sette le “decisioni tecniche”; Bundu però non si lasciava scoraggiare, insisteva, migliorava e vinceva e così tra il 2011 e il 2014 divenne il dominatore d’Europa, con ben sei difese del titolo continentale e due memorabili successi nella tana del lupo in Inghilterra. La meritatissima opportunità di fronteggiare due dei migliori pesi welter dell’era attuale negli Stati Uniti purtroppo non fu coronata dal successo, ma tanto Keith Thurman quanto Errol Spence dovettero attingere al meglio del proprio repertorio per domarlo. Di queste e altre indimenticabili battaglie ho parlato con Leonard in persona, ripercorrendo attraverso le sue parole 11 anni di lodevole carriera.

La sua prima opportunità di conquistare il tricolore la vide battersi contro il temibile Luciano Abis al PalaLido di Milano. Dopo un inizio infuocato fatto di scambi terribili, il match terminò con un pareggio tecnico al terzo round, a causa di uno scontro di teste. Le rimase un po’ di rammarico per l’opportunità sfumata? Come mai non ci fu una rivincita?

Sì, il rammarico c’era e c’è tuttora, anche perché quando poi feci il titolo italiano per la seconda volta a Firenze il match durò soltanto una ripresa dato che il mio avversario Grassellini accusò un dolore alla spalla e non poté continuare. Per me il titolo italiano era il primo traguardo, un riconoscimento molto ambito e importantissimo, però non avendo mai sofferto per guadagnarlo è come se non lo sentissi mio. Anzi, non ho mai visto nemmeno la cintura! Non ricordo cosa successe quella sera a Firenze, fatto sta che non l’ho ricevuta: mi dissero che poi me l’avrebbero mandata, ma non è mai successo. Mi dispiace perché in precedenza mi ero trovato a combattere nel sottoclou di altri titoli italiani e avevo sempre guardato con ammirazione i campioni nazionali. Con Abis sono stati tre round infuocati, tanto che siamo finiti per terra tutti e due: io non fui contato, ma il conteggio ci doveva essere. Al momento dello stop io mi sentivo ancora carico di adrenalina, purtroppo però è andata così. Inizialmente si parlò di organizzare una rivincita, ma non ricordo più come mai non si è più fatta.

I titoli di un certo peso non tardarono ad arrivare: prima quello italiano, conquistato ai danni di Grassellini, poi quello dell’Unione Europea, la cui prima difesa la spinse per la prima volta fuori dai confini nazionali, nella tana del tedesco Frank Shabani. Quali ricordi associa a quella prima esperienza all’estero da professionista?

Inizialmente avrei dovuto combattere contro Shabani in Finlandia, nel sottoclou di un match di Ruslan Chagaev che però fu trovato positivo a una forma di epatite non grave; quindi dal momento che lui non poteva combattere, l’intero evento saltò. Però andare lì mi è servito per iniziare ad ambientarmi in trasferta perché era tutto completamente diverso rispetto a quello a cui ero abituato. Qui in Italia quando combatti sembra di stare a una fiera di paese, lì invece era tutto curato nei minimi dettagli, dalle luci all’organizzazione; avevano anche chiamato a suonare gli UB40, un gruppo musicale molto importante e in generale l’evento era molto sentito. Confesso che quando ho saputo di non dover più combattere ero quasi contento perché l’ambiente mi aveva colpito, mi sentivo spaesato e sentivo un po’ di tensione per il primo grande appuntamento all’estero. Quindi quando un mese dopo andai in Germania ero preparato, sapevo già cosa mi aspettava e mi sentivo molto carico. Del resto quando superi la tensione iniziale questi grandi eventi ben organizzati ti spingono a dare ancora di più per restare a quei livelli. Quindi è stata una gran bella esperienza.

Nel 2011 i tempi erano maturi per il definitivo salto di qualità che si concretizzò con i due derby emozionanti contro il pericoloso picchiatore romano Daniele Petrucci, terminati con un pareggio tecnico a Roma e una sua vittoria ai punti a Firenze. Quanto la fecero crescere quelle due entusiasmanti battaglie?

Quei due incontri hanno rappresentato una tappa molto importante per la mia crescita. Erano sfide molto sentite e pubblicizzate e se ne parlava tanto, anche perché eravamo due pugili imbattuti che si battevano per l’europeo. Quindi ero molto carico e sentivo l’importanza del match ancor più di quanto fosse successo in Germania, visto che ero il protagonista, insieme a Petrucci, per un titolo così prestigioso. Affrontarlo è stato molto importante per me sotto tutti i punti di vista, sia perché ho combattuto contro un pugile imbattuto e bravo come Daniele, sia perché ho preso parte a un evento di grosse dimensioni. Quando sono passato professionista volevo dare il meglio di me, ma non dicevo di voler diventare campione europeo o di voler fare il mondiale: ho intrapreso questa carriera cercando di dare il massimo, per vedere dove sarei riuscito ad arrivare. Man mano che combattevo e affrontavo avversari sempre più quotati sono cresciuto: sicuramente quei due match con Daniele mi hanno dato un grande slancio per il definitivo salto di qualità.

Il suo lungo regno di campione europeo fu impreziosito dalle due imprese compiute nel Regno Unito, dove mise KO Purdy all’ultimo round di un match entusiasmante e poi sorprese l’imbattuto Gavin portandolo a un soffio dal KO e battendolo ai punti. Possiamo definire quella con Gavin la più grande impresa della sua carriera? Al suono dell’ultimo gong, ci credeva al fatto che le avrebbero dato il verdetto?

Sicuramente è stata una delle mie vittorie più importanti. Quando sono andato a combattere in Inghilterra la volta precedente contro Purdy mi sono trovato per la prima volta a confrontarmi con qualcuno che mi provocava e mi sfotteva. Persino durante l’incontro mi diceva “Sei vecchio! Ti metto KO!” Poi incassava, prendeva bei colpi e sembrava non sentirli, quindi anche lì c’è stato un momento di crescita, perché ho retto alle provocazioni capendo di dover insistere fino all’ultimo per farmi valere. Poi verso la fine del match ho iniziato a parlare anch’io e a dirgli: “Stai iniziando a stancarti eh? Visto a parlar male dei vecchietti…” Alla fine vinsi per KO, ma devo dire che quanto accaduto mi sorprese, perché io pensavo fosse un’abitudine tipicamente americana quella di sfottersi e insultarsi tra avversari. Questo però mi ha preparato al passo successivo, la mia carriera in effetti è andata avanti un gradino dopo l’altro, con difficoltà sempre crescenti: forse se dopo il titolo italiano fossi andato direttamente a fare l’europeo avrei reagito diversamente. Contro Gavin il mio angolo per stimolarmi dopo ogni ripresa mi diceva “Devi fare di più, altrimenti non te la daranno mai questa vittoria!”: a sentire loro sembrava che le avessi perse tutte. Quindi quando è finito, anche se sapevo che era stato un match molto combattuto, tenendo conto del fattore campo non pensavo di restare campione. Quel match tra l’altro a un certo punto sembrava già finito: dopo averlo atterrato stavo quasi già festeggiando, ma lui è stato grande nel rialzarsi. È stato un incontro molto bello e sofferto da parte di entrambi.

Le splendide vittorie ottenute da campione europeo la proiettarono verso la chance della vita: un match contro il fortissimo Keith Thurman all’MGM Grand di Las Vegas per il titolo ad interim della WBA. Dopo averla atterrata nel primo round l’americano adottò una tattica estremamente prudente. Crede che quell’atterramento iniziale le abbia tolto un po’ del suo solito impeto?

Sicuramente sì. Io nella prima ripresa, visto anche tutto il trash talking di cui lui si era reso protagonista e conoscendo la sua fama di picchiatore pensavo che sarebbe venuto dentro a picchiare, quindi ho cercato dubito di andare all’attacco per fargli capire di che stoffa ero fatto. L’ho aggredito senza ragionare troppo, ho preso un colpo e sono andato per terra. Nelle riprese successive credevo che lui sarebbe venuto avanti per capitalizzare quel knock down, quindi lo aspettavo senza spingere troppo ma round dopo round ha continuato a fare una boxe completamente diversa da quella che aveva sempre fatto e alla fine è finita così. Nel primo round comunque anche se sono finito al tappeto sono riuscito a incrociarlo un paio di volte e ho visto che era vulnerabile, quindi forse ha deciso che fosse meglio non rischiare e portare a casa la vittoria boxando da fuori, visto che lo sapeva fare bene. Del resto quando ci siamo incontrati il giorno dopo nella hall dell’albergo il portiere ci ha chiesto “Ma chi di voi due ha perso?”, perché lui aveva il volto segnato e i colpi che lo hanno ridotto così li ha presi sicuramente nelle prime riprese, quando ci sono stati gli scambi da vicino. Io chiaramente dopo l’atterramento ho cercato di ragionare per non commettere lo stesso errore, magari se non fossi andato giù avrei trovato il modo di accorciare la distanza.

Avendo combattuto contro due dei pesi welter più forti di questa generazione potrà soddisfare la curiosità dei nostri lettori: chi ritiene superiore tra Keith Thurman ed Errol Spence? E chi dei due colpisce più duramente?

Subito dopo il match con Spence, anche se mi aveva messo “a nanna”, ero del parere che Thurman fosse più tecnico, perché con me si era dimostrato molto mobile, sgusciante e bravo nell’entrare e uscire; in più aveva un pugno veramente duro. Naturalmente anche Spence fa molto male, ma sono potenze diverse. Spence ha quel colpo che ti sposta di un metro, Thurman invece ha il colpo secco, quello che quando ti prende ti dà una scossa elettrica. Spence quando l’ho affrontato, pur essendo molto bravo anche lui, mi era sembrato un po’ più semplice da colpire. Quindi sul momento ho pensato che un demolitore come lui contro un pugile dotato della potenza e delle abilità tecniche di Thurman, sarebbe incappato in qualche colpo e che avrebbe perso. Però poi, dopo aver visto tutti gli incontri successivi di Spence, che ha disputato dei grandissimi match, ho cambiato idea, anche tenendo conto di tutti gli acciacchi fisici che ha avuto Thurman.

Alla luce della sua fantastica carriera, di cui abbiamo ripercorso insieme le tappe fondamentali, le rimane un po’ di rimpianto per essere passato professionista così tardi rispetto a molti suoi colleghi?

Qualche volta sì, però sono realista e so che prima non ero abbastanza maturo per fare quei sacrifici che sono richiesti a un professionista per arrivare ad alti livelli. Il professionismo è un grosso impegno e non un gioco: io da dilettante ero ancora “bambino” dal punto di vista mentale. Quando invece ho effettuato il passaggio l’ho fatto conscio del fatto che andavo incontro a certi sacrifici. È andata così perché così doveva andare. Certo, se avessi avuto un’altra testa da ragazzo sarebbe stato meglio: con una decina di anni in meno forse avrei scritto qualche ulteriore pagina della boxe italiana e non solo.

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