La nostra sezione “La grande boxe italiana” si arricchisce oggi di un altro fondamentale capitolo, quello dedicato al talentuoso pugile sardo Andrea Sarritzu, protagonista di una carriera che ha dato enorme lustro al nostro Paese. Dopo un ottimo percorso dilettantistico che lo ha visto primeggiare in Italia in tutte le categorie in cui ha militato, dalla più giovane età al passaggio nei professionisti, il piccolo grande campione sardo ha calcato i ring pro per quasi vent’anni, togliendosi numerose soddisfazioni e facendo sognare gli appassionati italiani con le sue avvincenti battaglie. Per due volte a pochi centimetri dal sogno mondiale, fermato dal leggendario pugile argentino Omar Narvaez, che poi avrebbe superato il numero di difese mondiali di Carlos Monzon, Andrea ha fatto sua per due volte la cintura europea e non ha mai smesso di mettersi in gioco e di puntare in alto, incurante del valore e della pericolosità dei suoi avversari. Abbiamo deciso di affidarci alle sue parole per ricostruire un percorso sportivo entusiasmante andato avanti tra speranze, cadute, riscosse e tanto amore per il pugilato.
L’inizio della sua carriera professionistica è stato un po’ atipico: a differenza della maggior parte dei nostri pugili, che partono dal titolo italiano per poi ambire all’europeo, lei ha disputato e vinto due titoli internazionali contro Job Tleru e Andrey Kostin per poi arrivare direttamente al mondiale. Cosa le hanno dato quelle due vittorie in termini di esperienza e a cosa si deve questo percorso particolare?
Quando ho scelto di passare professionista sono partito con la mentalità che ci conduceva all’eccellenza in passato: se c’è la possibilità di avere tra le mani un grosso capitale sportivo occorre sfruttarlo nel migliore dei modi fin da subito. Quindi non siamo stati lì a maturare esperienza lentamente partendo dal basso: abbiamo sfidato direttamente quei pugili importanti che avessero già disputato grandi match, in modo da arrivare ai traguardi che ci interessavano. Ho fatto quindi delle semifinali mondiali per arrivare rapidamente a battermi per il titolo. Il sudafricano Tleru era tra i primi dieci in classifica, mentre Kostin, quando è venuto in Italia per battersi con me il pugilato internazionale l’aveva già conosciuto, avendo combattuto in trasferta a Wembley: non andavamo in cerca del classico collaudatore. Dopo quelle vittorie mi hanno inserito ai primi posti della classifica WBO e quindi abbiamo provato immediatamente a ottenere una chance, anche perché l’argentino Narvaez aveva appena vinto il titolo.
I due mondiali disputati contro l’argentino Omar Narvaez sono sfumati per un soffio: una sconfitta per Split Decision e un pareggio. Tenendo conto della carriera pazzesca che Narvaez ha poi messo in piedi si tratta comunque di risultati di assoluto prestigio. Cosa mancò per portare in Italia quella cintura?
Per me la difficoltà maggiore è stata, una volta salito sul ring, capire quale fosse la strategia da adottare. La preparazione era stata ottima, forse la mia maturità non era ancora al top, infatti quando rivedo quel primo match mi rendo conto che sia mancato qualcosa. Devo però aggiungere che in sede di organizzazione non tutto è stato fatto nel migliore dei modi, rinunciando al controllo sui nomi che furono scelti per la giuria. Credevo che con un po’ di motivazione in più sarei riuscito a vincere il secondo, anche perché il primo pensavo di averlo vinto. I due incontri sono stati molto simili, sembrano fatti con lo stesso stampo; personalmente quindi, visto che nel primo avevano dato un piccolo vantaggio a lui, mi aspettavo che nel rematch potessero darmi la vittoria. Ma non ho niente da recriminare: è stata una bellissima esperienza, soprattutto tenendo conto dell’età che avevo. Del resto se guardiamo alla carriera che poi ha fatto Narvaez e ai suoi 32 mondiali disputati, penso si possa dire che mi sono battuto con qualcuno di importante.
Ha mai provato a ottenere un terzo match?
Assolutamente sì, l’ho inseguito per tutta la vita perché volevo assolutamente affrontarlo una terza volta. Ci ho provato più volte ma non è stato possibile. Lui dopo il secondo match aveva detto che in Italia non sarebbe tornato più. Poi dopo che io ho avuto il mio exploit e sono diventato campione d’Europa, ho riprovato a spingere al massimo, però i suoi procuratori non si sono mai piegati. Prima che io perdessi il titolo europeo avevamo anche trovato un grosso sponsor, eppure lui non ha mai accettato.
Veniamo ora a un’altra duplice sfida, quella valida per il titolo europeo contro lo spagnolo Ivan Pozo che nel 2005 riuscì a superarla ai punti in Spagna. Cosa le diede le motivazioni per assorbire il peso di quella sconfitta e preparare il rematch con la consapevolezza di poter ribaltare il risultato?
In Spagna avevo fatto le prime dieci riprese andando sempre avanti e posso dire che le cose sono andate molto diversamente rispetto a quanto si possa pensare leggendo il risultato. Loro comunque in sede di organizzazione sono stati bravi a non farmi sentire tranquillo e io pur mettendocela tutta non sono riuscito a fare quello che volevo. Sapevo quindi che nella rivincita potevo vincere anche prima della fine delle dodici riprese. Io venivo da un periodo della mia vita che era stato molto pesante. Nel 2003 durante il parto della mia ex moglie hanno commesso un errore e abbiamo perso il bambino. Poco dopo mia madre si è ammalata di tumore ed è morta quando ancora non aveva compiuto 55 anni. Successivamente nel giro di un anno è venuta a mancare anche mia nonna, quindi ho avuto tre lutti ravvicinati davvero difficili da superare. Fortunatamente poi è nato mio figlio e io ho incontrato una persona che mi ha aiutato tantissimo sul piano mentale, ovvero il mio mental coach. Per un pugile come me, dopo la carriera stupenda che avevo avuto nei dilettanti in cui non avevo sbagliato un colpo, a parte la sconfitta di un punto con cui mi beffarono agli europei non facendomi andare alle Olimpiadi di Atlanta, sarebbe stato un peccato non raggiungere gli obiettivi che mi ero prefissato. Ero il classico pugile fortissimo che al momento decisivo della sua carriera non riesce a compiere l’ultimo passo.
Nel rematch con Pozo al Vigorelli di Milano lei firmò il suo autentico capolavoro con un emozionante KO tecnico all’ultimo round dopo essere stato contato nella prima ripresa. Si aspettava un match così duro ed emozionante?
Quello è stato il più grande capolavoro di tutta la mia carriera perché non ho fatto mai un passo indietro, anche nel momento peggiore, dimostrando quanto fosse grande la mia volontà di ottenere quel risultato. Ho fatto quattro mesi e mezzo di preparazione a Civitavecchia; nel tempo che passava tra un allenamento e l’altro visualizzavo nella mia testa il match che avrei disputato, come mi era stato consigliato di fare dal mio mental coach. Quando arrivai sul posto il giorno del match dissi al mio allenatore Franco Cherchi: “Io nelle prime riprese prenderò un colpo, andrò a terra, mi alzerò subito e da lì inizierà il mio match”. Me lo ricordo come se fosse oggi: eravamo negli spogliatoi con Cherchi e con Silvio Branco che doveva fare il mondiale. Fortuna ha voluto che quel colpo sia arrivato subito, alla prima ripresa, ed ecco perché l’incontro è diventato così bello.
Lei ha vinto ai punti la maggior parte dei suoi match più importanti, eppure nella difesa del titolo EBU contro lo spagnolo Zemmouri mise a segno uno stupendo KO da colpo singolo. Lo ricorda ancora quel perfetto destro d’incontro?
Quello è stato un KO da manuale, ma in verità in carriera ne ho messi a segno altri simili che però magari non sono stati filmati. Quando c’è un titolo in palio quello che succede rimane più impresso, ma ne ricordo altri di KO che hanno spinto la gente a mettersi le mani nei capelli. Pur non facendo male, col colpo preciso potevo far venir fuori qualcosa di folle e quando stavo bene mi succedeva abbastanza spesso.
Anche dopo aver perso il titolo lei ha mantenuto intatte le sue ambizioni tanto da riconquistarlo l’anno dopo e da guadagnarsi una nuova chance mondiale per il titolo IBF contro il fortissimo sudafricano Moruti Mthalane. Si è trattato dell’ultimo mondiale di una delle quattro sigle principali disputato in Italia in campo maschile. Cosa lo rese possibile e di cosa ci sarebbe bisogno per tornare a proporre sfide di quel livello nel nostro Paese?
Servono innanzitutto pugili di grande livello e oggi purtroppo non ce n’è. Io seguo il pugilato italiano e purtroppo credo manchi il vero e proprio talento: bisogna ricominciare dal basso per vedere qualche risultato, è inutile chiamare “campioni del mondo” dei pugili che in realtà non lo sono. Il mio carattere mi impone di essere sempre schietto e dire la verità, forse è per questo che non piaccio alla gente. Al momento c’è forse qualche ragazzino che col giusto percorso di crescita potrebbe arrivare un giorno a disputare un titolo importante, ma se mi guardo intorno e osservo i campioni delle quattro sigle principali, devo dire che noi italiani non siamo a quel livello. Io ho potuto disputare quel titolo perché ero campione europeo da diversi anni, è così che me lo sono guadagnato. Ero già corteggiato dalla WBC che voleva propormi una semifinale mondiale e dalla WBO il cui campione, il messicano Miranda, era evitato da tutti. Infine ho scelto la strada proposta dall’IBF, che voleva organizzare una semifinale con un forte pugile messicano e dare al vincente l’opportunità mondiale. Io avevo accettato, ma il mio avversario ha rinunciato e così l’IBF mi ha chiesto se volessi fare il mondiale senza passare per la semifinale perché i sette pugili a cui era stato proposto di subentrare avevano tutti rifiutato. A quel punto mi sono detto: “Un mondiale è un mondiale, facciamolo”.
L’esito purtroppo non è stato quello sperato. Ma se dieci anni dopo il sudafricano, ormai 38enne, era ancora campione del mondo, qualcosa vorrà pur dire…
Vedendo il record di Mthalane e le sue caratteristiche pensavo che se fossi riuscito a superare le prime sette o otto riprese senza subire troppi danni sarei riuscito a far valere il mio pugilato e a tirar fuori qualcosa di buono. Quando poi ci siamo trovati di fronte a centro ring per il saluto prima del match e lui mi ha dato il classico pugnetto sul guantone ho sentito una scossa, il che fa capire quanto facesse male. Non si è mai capito come sia riuscito a fare il peso: sulla bilancia è arrivato addirittura più leggero di me e non si reggeva in piedi tanto era disidratato. Il giorno dopo guardandolo sembrava un pugile superiore di due categorie: siamo rimasti scioccati. Quando siamo saliti sul ring il suo peso era di almeno otto chili più alto del mio, tanto che quando l’ho visto ho detto “Ma questo non è il mio avversario, è impossibile”. Era il doppio. Naturalmente ci ho provato lo stesso e quando dopo le prime riprese sono riuscito a mettere a segno qualche bel colpo ho sperato che lui stesse calando, invece a partire dal settimo round ha addirittura accelerato. Dopo aver subito due forti colpi al corpo ho mollato: stavo perdendo e probabilmente mi avrebbe messo KO perché faceva veramente male, non potevo far altro che dargli la mano perché si era dimostrato più forte. Non c’è stato da parte sua quel calo fisico in cui speravamo.
Grazie per il tempo che ci hai dedicato. C’è qualcos’altro che vuoi dire ai nostri lettori?
L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che ho abbandonato il pugilato professionistico con molta amarezza, perché se il procuratore con cui collaboravo, ovvero Salvatore Cherchi, fosse stato un po’ più umano e un po’ più sincero mi avrebbe permesso di chiudere in bellezza. C’era la possibilità di raggiungere dei record che in Italia si aspettavano da anni: quello della terza conquista del titolo europeo e quello di essere l’unico pugile a conquistare il titolo nazionale in tutte le categorie a partire da quand’ero bambino. Darmi almeno la possibilità di vincere il titolo italiano mi avrebbe permesso di stabilire un record di cui andare fiero e invece non me l’hanno fatto fare. Non mi posso lamentare per i soldi guadagnati in carriera, ma mi è rimasto questo rammarico e cioè che chi mi ha seguito per così tanti anni non abbia voluto realmente bene a un pugile che gli ha dato tanto. Se guardo al mio cammino dal 2006 al 2013 posso dire che la OPI 2000 (oggi OPI Since 82 NDR) viveva sulle spalle di Andrea Sarritzu: organizzava solamente i titoli di Andrea Sarritzu e dietro di me c’era tutta la scuderia. Hanno provato a spingere altri pugili regalandogli dei match titolati ma senza ricevere alcun riscontro. E posso anche dire che i soldi che mi spettavano per alcuni dei titoli che ho fatto li ho ricevuti dopo tanto tempo. Mi aspettavo quindi che dopo vent’anni di carriera meritassi di essere ringraziato, anche soltanto con quel semplice titolo italiano che mi è mancato e che mi avrebbe fatto coronare il sogno di aggiungere quel record agli altri che ho stabilito.