Intervista a Emiliano Marsili, l’eterno ragazzo di Civitavecchia

Ci sono pugili più forti del tempo che passa, capaci di cristallizzarlo come dei maghi, mantenendosi tremendamente competitivi a dispetto della propria carta d’identità. Per farlo occorrono attitudine al sacrificio e grande professionalità ed Emiliano “Tizzo” Marsili, eterno ragazzo di Civitavecchia, ha ampiamente dimostrato di possedere entrambe. Non a caso si è confermato uno degli esponenti di punta del nostro movimento pugilistico per più di 21 anni di carriera professionistica e fino ai 48 anni di età.

Di questo e di molto altro abbiamo parlato con “Tizzo” in persona, ripercorrendo i capitoli più significativi ed entusiasmanti di una carriera che è ufficialmente terminata appena sette giorni fa, con l’ultimo bagno di folla nella sua Civitavecchia, la cui cittadinanza è accorsa per assistere all’ennesima lezione di boxe del suo eterno ragazzo.

La sua prima esperienza titolata fu quella che la vide pareggiare con Giovanni Niro a Grosseto nel 2006. Quanto incise quella volta il fattore campo e come mai passarono quasi quattro anni prima che le venisse data una nuova chance per il tricolore?

Quando ho vissuto la mia prima esperienza per il titolo ero un ragazzo inesperto e non essendo mai salito su certi palcoscenici mi sentivo un po’ bloccato. Mi ero preparato molto bene con il mio maestro Franco Cherchi e siamo andati a Grosseto per fare questo titolo italiano in casa di Giovanni Niro. Ho iniziato l’incontro con un po’ di tensione addosso ma nonostante questo, non ricordo bene se nella prima o nella seconda ripresa, l’ho messo per terra: non l’hanno nemmeno contato! Poi nel proseguo del match ho avuto alti e bassi, è stato un bel combattimento, ma nel complesso credo di essermi dimostrato superiore. Ad assistere c’era anche Franco Falcinelli, l’ex presidente della FPI, che alla fine disse che se qualcuno doveva essere premiato, andava premiato il pugile più tecnico. Chiaramente lui non si poteva sbilanciare più di tanto. È stato un match duro, soprattutto per via della mia inesperienza, anche se all’epoca già mi allenavo con grandi campioni come Stefano Zoff, Gianluca Branco, Sandro Casamonica: aver potuto fare i guanti con loro e averli potuti osservare durante gli allenamenti lo considero un regalo straordinario che ho avuto a differenza di quanto accade oggi a molti pugili che in palestra non hanno nessuno da cui prendere esempio. Quindi andando avanti sono cresciuto anche grazie a loro. Quel primo titolo italiano comunque ritengo ancora oggi che mi sia stato rubato: l’atterramento era stato evidente, ma anche senza tenerne conto avevo vinto lo stesso, alla fine Niro non ne aveva più e sputava continuamente il paradenti. Nell’ultima ripresa era quasi KO e per farlo arrivare alla fine hanno persino interrotto il round prima che finissero i tre minuti regolamentari. Il motivo per cui c’è voluto così tanto per ottenere una nuova opportunità secondo me è che con quel match non ho convinto il mio manager Salvatore Cherchi.

Nel 2010 iniziò il suo periodo d’oro con la vittoria travolgente su Luca Marasco che ai tempi era considerato il nostro esponente di punta tra i pesi leggeri. Con quanta fiducia affrontò quell’impegno, sulla carta così difficile?

Luca Marasco avrebbe dovuto addirittura combattere per il titolo europeo dopo il match contro di me. Ma quando mi hanno dato la seconda opportunità per conquistare il titolo italiano l’ho vista come una chance d’oro e anche come l’ultimo treno: se avessi fallito quell’occasione avrei smesso di fare pugilato. Avevo 33 anni e mezzo e mi sono detto: “Se non vinco questo, stavolta lascio tutto”. Io e Mario Massai, che nel frattempo era diventato il mio nuovo maestro, abbiamo creduto tanto in questo incontro, ci siamo impegnati e sul ring si è visto quanto fossi cresciuto. Sono salito sul quadrato credendo fermamente nelle mie capacità e ho fatto il match della vita.

Nel gennaio del 2012 si recò a Liverpool per giocarsi la cintura IBO con l’inglese Derry Mathews. Cosa le è rimasto impresso di quella folgorante vittoria per KO in trasferta e quanto la fa arrabbiare il fatto che ebbe poca risonanza che ebbe la sua vittoria per via del fatto che l’IBO non fosse all’epoca riconosciuta dalla Federazione italiana?

È stata una delle vittorie più belle della mia vita. Davvero favolosa. Per me andare a Liverpool e disputare un mondiale a 35 anni era la chance della vita, non avrei mai potuto farmela sfuggire. Quindi anche se c’erano problemi legati al fatto che la IBO in Italia non fosse riconosciuta, ho deciso di farlo lo stesso. Il giorno prima dell’incontro, mentre mi trovavo impegnato con le operazioni di peso, mi ha chiamato la Federazione Pugilistica Italiana per dirmi che se avessi combattuto sarei stato radiato dal pugilato italiano. Io ho detto: “Ma voi mi chiamate per dirmi queste cose il giorno prima dell’incontro? Dovrei dare forfait quando mi trovo già qui, con gli inglesi che mi hanno pagato il volo, rinunciando anche alla borsa? Ma state scherzando? Non esiste proprio, io sono qui e faccio il mio dovere, poi quel che succede succede”. E così ho fatto e anche le persone che stavano con me, che pure rischiavano la squalifica, hanno deciso di andare avanti. L’atmosfera era incredibile, c’era una tensione pazzesca e gli inglesi mentre entravo mi riservavano fischi, sputi, monete gettate dagli spalti… Ma alla fine a gioire siamo stati io le quaranta persone che erano venute a sostenermi. Per il resto, non ho motivo di arrabbiarmi, sono stato campione del mondo e questo non può togliermelo nessuno. Su BoxRec c’è scritto “Marsili campione del mondo IBO” e sono contentissimo del fatto che oggi questo titolo venga riconosciuto anche in Italia.

Un ulteriore punto esclamativo per la sua carriera arrivò un anno dopo a Civitavecchia dove riuscì a mettere KO in soli due round l’allora imbattuto e quotato Luca Giacon, laureandosi campione europeo. Fu una guerra intensa in cui lei stesso subì un conteggio: si aspettava un match tanto breve e tanto emozionante?

Non mi aspettavo un match breve, ero convinto che sarebbe stato durissimo. Mi sono preparato benissimo, sempre con il maestro Massai e con il mio preparatore Gino Lauro, fino a raggiungere il top della condizione. Sapevo che Luca Giacon fosse un pugile giovane, forte, tecnico, veloce e potente: aveva tutte le caratteristiche per diventare un campione. Io però qualche tempo prima avevo avuto un colpo di fortuna. Giacon doveva fare una difesa del suo titolo dell’Unione Europea contro un mancino, quindi Cherchi mi chiamò e mi chiese se potessi fargli la cortesia di andare in Sardegna per un fine settimana a fare i guanti con Luca. Io dissi: “Va bene, certo! Vengo subito!” Il mio maestro non voleva, ma io sono uno che certe decisioni le prende da solo. Siamo una squadra, ci confrontiamo, ma quando la testa mi dice di andare io vado. Il primo giorno sono sceso dall’aereo e sono andato direttamente a fare i guanti, con tutta la stanchezza addosso. Abbiamo fatto sei riprese testa a testa, durissime. Nonostante avessi il caschetto protettivo ho sentito che faceva veramente male, come mi aspettavo, ma ho anche avuto la netta sensazione che non gli piacesse prendere i colpi. Il giorno dopo alla prima ripresa mi sono ferito all’altezza del sopracciglio ed è finita la storia: ho preso l’aereo e sono tornato a casa. Avevo capito che Luca Giacon era fortissimo, ma anche che aveva un punto debole. Quindi quando mi hanno proposto il match ho deciso di giocarmela e ho accettato subito. Il giorno dell’europeo ero tesissimo, anche perché quella sera non si svolgeva un solo match, ma ben tre: era una sfida tra manager, una sfida tra allenatori e una sfida tra pugili. Io ancora oggi considero la famiglia Cherchi in ambito manageriale la migliore in Italia e in Europa, e una tra le prime al mondo. Però all’epoca mi sono dovuto allontanare da loro perché mi sono accorto che comprensibilmente puntavano su Luca Giacon che era più giovane e aveva tutta la carriera davanti, così mi sono rivolto a Giulio Spagnoli. La tensione si tagliava con il coltello e in pochi si aspettavano che facessi quel match. Non se l’aspettava nemmeno il mio pubblico qui a Civitavecchia, però a me è sempre piaciuto partire sfavorito, è una condizione che mi carica ancora di più.

Dopo il roboante successo su Giacon ha continuato a vincere e convincere per più di dieci anni difendendo più volte l’europeo e conquistando la versione “Silver” del titolo WBC. In tutto questo tempo le è stata proposta la grande chance di disputare un mondiale per una delle quattro federazioni principali? Ha qualche rimpianto per non averla colta?

La chance di disputare un mondiale è arrivata. Cherchi mi ha dato questa possibilità di battermi per il titolo della WBC. Mi avrebbero dato 100mila dollari e a essere sincero una borsa del genere per affrontare Dejan Zlaticanin a New York non mi sembrava sufficiente. Inoltre non stavo bene fisicamente e non potevo affrontare il match della vita senza essere al 100%. Avevo avuto una colica e mi sentivo completamente svuotato, come facevo ad andarci? Zlaticanin poi ha vinto quel mondiale contro un sostituto scelto al volo e successivamente lo ha perso contro Mikey Garcia per KO. Un po’ di rimpianto c’è, perché se fossi stato bene fisicamente ci sarei andato anche per 100mila dollari. Ero arrabbiato, questo sì, perché 100mila dollari per il mondiale della sigla più prestigiosa mi sembravano una presa in giro, ma non mi sarei lasciato sfuggire l’opportunità. Però io sul ring ci salgo solo se sono al meglio, l’avversario per battermi deve rivelarsi superiore e in quel caso gli faccio tanto di cappello, ma non posso perdere per aver regalato dei vantaggi.

Su Amazon Prime Video è disponibile un film documentario sulla sua storia di uomo e di pugile, intitolato “Tizzo. Storia di un grande campione”. Come è nata questa iniziativa e quanto si è sentito a suo agio davanti alla macchina da presa?

Quello è stato un altro bel percorso intrapreso grazie a Francesca Piggianelli e al regista Alessio Di Cosimo. Francesca Piggianelli è stata l’ideatrice, ha messo insieme i vari pezzi del puzzle. È stata una bellissima esperienza, anche perché trattandosi della mia vita non ho dovuto recitare, ero semplicemente me stesso. Facevano le riprese mentre mi allenavo, chiamandomi ogni tanto per farmi dire qualche battuta e così è venuto fuori il mio percorso di vita oltre alla mia preparazione nell’avvicinarmi a un titolo. È bello anche perché offre un’immagine del pugilato diversa dai soliti stereotipi: mostra un pugile serio che fa sacrifici, non il solito violento che va in discoteca a fare a pugni. Credo sia importante comunicare la serietà che deve esserci per praticare la boxe a certi livelli. Il film lo hanno visto tante persone, ho ricevuto molti messaggi di congratulazioni e per me è stata una bella soddisfazione.

Il suo ultimo tentativo di riconquistare il titolo europeo sembrava una sfida impossibile: a 47 anni, in trasferta e contro un pugile altissimo. Eppure alla fine dell’incontro, nonostante la sfortunata sconfitta per infortunio, gli articoli internazionali, compresi quelli dei giornali inglesi, erano stracolmi di complimenti nei suoi confronti…

L’unico problema nell’affrontare Gwynne è stato che il match è stato rinviato tre volte: da maggio siamo finiti a dicembre e dopo tre preparazioni di fila il mio fisico a 47 anni non ha retto. Se il match si fosse tenuto regolarmente dopo i primi tre mesi della mia preparazione Gwynne sarebbe saltato in aria, come ho dimostrato con il match che stavo conducendo. Purtroppo l’età mi ha beffato: sono stati furbi gli inglesi nel rimandare l’incontro tre volte e noi non avevamo sufficienti risorse per portarlo in Italia. Avessimo avuto un governo e delle istituzioni diverse, volenterose di aiutarmi a organizzare il match in Italia, la musica sarebbe cambiata. Sarei diventato nuovamente campione d’Europa, imbattuto, già campione del mondo e l’avrei fatto a 47 anni: sarei passato alla storia. Però non rimpiango nulla, è andata bene comunque. I complimenti ricevuti anche sui giornali inglesi mi hanno fatto piacere e credo siano giustificati dal fatto che per otto round ho mostrato a Gwynne, a casa sua, come si fa il pugilato, proprio come avevo fatto nel 2012 con Derry Mathews. Del resto per me non ha mai fatto differenza combattere in casa o in trasferta; ma dopo aver prolungato la preparazione da maggio a dicembre, tenendo sempre il peso, il mio fisico ha ceduto. Se l’infortunio invece di capitare all’ottavo round fosse capitato al decimo, avrei stretto i denti per due riprese e mi sarei portato a casa il titolo. Ma quattro riprese non potevo farle.

Dopo la splendida manifestazione di venerdì scorso a Civitavecchia cosa c’è nel futuro di Emiliano Marsili? Rimarrà nel mondo del pugilato per trasmettere la sua esperienza alle nuove generazioni?

Ma certo! Questo è il mio mondo e dopo 33 anni di agonismo non posso dimenticare lo sport per il quale sono nato e col quale sono cresciuto. Mi sto già organizzando per aprire una palestra, ho conseguito l’attestato di tecnico mentre mia moglie ha ottenuto in Federazione la qualifica di manager superando il relativo esame. Apriremo la nostra scuderia per portare avanti la tradizione civitavecchiese. E naturalmente resterò sempre accanto a chi mi ha dato tanto come l’Opi2000 che mi ha permesso di disputare una bellissima carriera.

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