A dare lustro al nostro pugilato, raggiungendo traguardi e riconoscimenti di portata storica, non sono stati soltanto gli uomini, anzi: nell’arco degli ultimi decenni diverse atlete dotate di eccelse qualità tecniche e caratteriali ci hanno reso orgogliosi di essere italiani, dando linfa a un movimento in costante crescita. Tra tutte, un posto d’onore spetta a Simona Galassi, la straordinaria “Romagna Queen”, che dopo essersi dimostrata semplicemente imbattibile da dilettante, con tre ori mondiali e tre ori europei, ha fatto faville anche da professionista.
Il suo palmares si è infatti arricchito con la cintura EBU dei pesi mosca, conquistata due volte, e soprattutto con il mondiale WBC nella stessa categoria di peso e con quello IBF nei supermosca. Sorretta da una professionalità con pochi eguali, Simona si è dunque resa protagonista di una carriera indimenticabile e straordinariamente longeva, al punto da mantenersi competitiva ai massimi livelli mondiali per più di nove anni pur essendo approdata tardi nel mondo dei pro.
Le sue imprese meritano di essere raccontate ed è un onore per noi poterlo fare attraverso le parole della stessa Simona che ha accettato di ripercorrere con noi i momenti chiave del suo affascinante percorso sportivo nel giorno del suo 53esimo compleanno.
La tua carriera dilettantistica è stata impressionante, con tre ori mondiali e tre ori europei e un record clamoroso di 86 vittorie su 87 match disputati. È mancata, non per colpa tua, la ciliegina sulla torta dell’oro olimpico. Quanto è stato importante per la crescita del pugilato femminile la sua inclusione tra le specialità olimpiche e quanto ti avrebbe fatto piacere prendere parte a una rassegna a cinque cerchi?
È stato sicuramente molto importante. Quando io feci i primi mondiali tra i dilettanti nel 2001 parlai con Enza Iacoponi, Segretario Generale dell’EBU, che ai tempi parlava del 2004 come anno di ingresso delle donne, dandoci così una certa speranza. Poi tutto è slittato al 2008 per poi slittare nuovamente. Quindi per un certo periodo ho atteso la possibilità di approdare alle Olimpiadi, un grande sogno che mi sarebbe piaciuto tantissimo coronare, perché io sono sempre stata una sportiva nel cuore e nell’anima: amo lo sport, ne avverto il significato più intrinseco, che va al di là di quello agonistico. Per me non è stato possibile, però questo traguardo per le donne ha facilitato tante cose: ha determinato l’ingresso delle pugili nei gruppi sportivi che ha permesso loro di avere una certa tranquillità dal punto di vista economico, quello che è mancato ai nostri tempi, quando dovevamo lavorare e organizzarci per mettere in piedi un piano di lavoro compatibile con le esigenze degli atleti di alto livello.
Dopo soli due match disputati da pro avesti subito la grande chance di diventare campionessa europea, ma il match contro Nadya Hokmi terminò in parità. Fu un tentativo troppo affrettato o quel pareggio ti diede la spinta motivazionale necessaria per battere prima del limite Bettina Voelker nella chance continentale successiva?
Sinceramente non lo so se sia stato affrettato. Sicuramente io non avevo ancora capito alcune cose. Quel match finì così perché io arrivai all’appuntamento in sovrallenamento. L’incontro doveva tenersi a dicembre, poi è slittato a gennaio e io nel periodo delle vacanze avevo già le mie crisi per fare il peso oltre a dovermi allenare da sola perché in quel periodo non potevo vedermi col mio allenatore. Quindi arrivai al match in una situazione di difficoltà sia psicologica che soprattutto fisica. Quello è stato il mio primo match veramente duro, perché la pugile francese era molto forte, non tanto dal punto di vista tecnico, versante sul quale potevo surclassarla, ma da quello fisico. Mi ricordo la sensazione di non averne più dopo essere tornata all’angolo alla fine della seconda ripresa: dovevo farne dieci ed ero disperata. Quindi da un lato forse c’è stata un po’ di fretta nel darmi subito quella chance in virtù delle mie qualità e capacità, dall’altro ci sono stati alcuni errori miei di inesperienza nel gestire certe situazioni. Dopo ho imparato che un match nei pro può slittare anche quattro volte, ma ai tempi è stato davvero difficile riorganizzare il piano degli allenamenti. Ci sono stati comunque due aspetti positivi. Il primo è stato far capire al mio procuratore Cherchi che avevo determinate qualità, nonostante la brutta prestazione. Quando andai negli spogliatoi, completamente distrutta per aver dato tutto per terminare quel match, lui mi disse “Ho visto in te delle qualità, perché sono pochi quelli che sanno stringere i denti”. Il secondo è stato quello di aver imparato tantissimo da quell’esperienza.
Dopo esserti imposta in Europa, ottenesti la chance di coronare il sogno di una vita affrontando l’allora campionessa mondiale WBC dei pesi mosca Stefania Bianchini in un derby molto sentito. Vi siete affrontate due volte, e per due volte il verdetto è stato netto in tuo favore: qual è il tuo ricordo di quei derby tanto attesi e che rapporto c’era tra voi al di fuori del ring?
Io avevo conosciuto Stefania quando ero ancora dilettante, prima ancora di diventare campionessa del mondo, e lei era venuta in nazionale a fare dei guanti per preparare un suo match professionistico. In quella seduta di guanti che avevamo fatto insieme le si era gonfiato un occhio, le avevo fatto il cosiddetto “occhio nero”. Quando poi le hanno detto che ero diventata campionessa del mondo lei rispose: “Beh, io non mi faccio mica fare gli occhi neri da chiunque…” Stefania ha sempre avuto una personalità molto forte, ha sempre parlato in faccia senza mezzi termini. Quando c’è stata l’occasione della sfida mondiale, tra noi è nata una gran rivalità, perché entrambe volevamo vincere ed entrambe avevamo la consapevolezza di poter vincere. Lo ricordo come un periodo meraviglioso, io mi sentivo stimolata da tutto quello che diceva, mentre i miei fan si arrabbiavano. Lei diceva: “La metterò KO davanti ai suoi tifosi”, faceva delle gran dichiarazioni. Io ridevo quando le leggevo: da un lato apprezzavo molto il suo coraggio, perché non è nel mio carattere essere così spavalda, dall’altro mi divertiva, perché ero così convinta di me stessa che tra me e me pensavo: “Va bene, parla, poi vedremo nei fatti”. Quindi l’ho vissuta come una competizione sana, al di là di quelle che sono state le dichiarazioni, perché ci sta che ognuno abbia il suo carattere. Lei non ha accettato molto il secondo verdetto, perché è stato molto netto mentre lei riteneva di aver fatto meglio rispetto alla prima volta e che questo non le fosse stato riconosciuto. Però al di là di quello, ci siamo sempre parlate, ha riconosciuto la mia vittoria e per quanto potesse bruciarle la cosa è sempre stata una persona molto onesta. Ovviamente non diventerà mai l’amica della mia vita, però ci rispettiamo come atlete e come persone e già questo vale molto.
Un fantastico regno mondiale durato tre anni si concluse con un verdetto controverso in Messico, dove Mariana Juarez ti tolse la cintura con una discutibile decisione unanime. Appena sette mesi dopo però, tornasti campionessa del mondo, stavolta nei supermosca. Possiamo dire che le battute d’arresto ti rendevano ancora più forte?
Sì, anche perché dietro a certe battute d’arresto ci sono storie molto complesse. Un conto è quando ti rendi conto che l’altra è più forte di te oppure che tu non hai più niente da dare, un altro è sapere cosa hai passato per arrivare lì, quello che hai dato sul ring e poi come sono andate le cose. Quello sicuramente ti dà a livello emotivo e di determinazione una spinta in più per fare meglio ed essere ancora più forte. Da quelle circostanze ho tratto sempre un grosso stimolo a dimostrare quanto valessi veramente. Sono andata in Messico dopo un anno di sostanziale inattività, perché mi spostavano continuamente la difesa, finché al decimo rinvio mi hanno chiesto: “C’è questa possibilità in Messico, andiamo?” Io ovviamente ho detto di sì, ma mi sono ritrovata a combattere in altura senza una preparazione adeguata per farlo; ho dato tutto come sempre e ho sofferto tantissimo, perché alla decima ripresa mi sentivo veramente distrutta. Ogni sconfitta va valutata anche in base al vissuto che l’ha preceduta; le mie battaglie erano ben più lunghe di quelle dieci riprese e comprendevano mesi di attesa, mesi di stress, allenamenti buttati al vento prima dei rinvii, quindi sapendo tutto questo non mi sono mai lasciata demoralizzare.
La sconfitta prima del limite contro Szebeledi sembrava dover porre fine alla tua carriera, che invece è proseguita ad alti livelli per altri tre anni culminando nel bel derby europeo contro Loredana Piazza, un’avversaria motivata e più giovane di sette anni che riuscisti a disinnescare. Qual è stato il tuo segreto per restare competitiva così a lungo pur essendo passata relativamente tardi al professionismo?
Io sono arrivata tardi un po’ in tutto rispetto alla media degli altri atleti: ho iniziato a fare pugilato a 28 anni, quindi è stato inevitabile impiegare un certo tempo per fare tutti gli step successivi. La prima chiave del successo è stata la mia serietà: sono una persona molto seria e quello che faccio lo faccio con cognizione, non mi sono mai presa in giro e se avevo un obiettivo sapevo di doverci arrivare nelle migliori condizioni possibili, mangiando bene, conducendo una vita regolata, organizzando lavoro e allenamenti. Il secondo aspetto fondamentale è stato non accontentarmi mai delle mie qualità, cercando sempre di migliorare qualcosa, colmare le mie lacune e potenziare quello che già andava bene. Infine è stato importantissimo credere in me stessa: se non ci credi, puoi fare tutti gli allenamenti che vuoi ma non arriverai da nessuna parte. Questi tre aspetti mi hanno portato, finché ci ho creduto, a tener duro, a stringere i denti, perché se la gente sapesse cosa è successo dietro a quello che si vede sul ring, scoprirebbe un sacco di cose, esperienze che naturalmente rimangono nella mia sfera privata ma che mi hanno formato molto facendomi capire quanto ero disposta a dare per raggiungere i miei obiettivi. Il match con Loredana Piazza per me è stato difficile, perché siamo state compagne di nazionale per diverso tempo e c’era un rapporto di vera amicizia. Quindi c’era un po’ di ansia per il nostro rapporto, in virtù dell’agonismo e della voglia di vincere. Non ritengo di aver fatto un bel match, sia per motivi fisici che emotivi, però alla fine l’allenatore di Loredana Dino Orso mi ha fatto un grande complimento. Mi ha detto: “Sono rimasto molto colpito da te, perché si è visto che hai preso in mano il match e lo hai condotto come volevi tu, si è vista la tua personalità sul ring”. Detto da lui mi ha fatto veramente molto piacere e mi ha fatto capire che sul ring contano molte più cose oltre al semplice essere bravi.
Nell’ultima parte della tua carriera, l’obiettivo di diventare campionessa del mondo per la terza volta è sfumato davvero per un soffio. I match contro Susi Kentikian e Debora Dionicius sono stati condotti sul filo del rasoio, col verdetto che poteva andare da una parte e dall’altra. Se però in Germania il fattore casa ha avuto il suo peso, in Italia non è successo altrettanto. Ti resta un po’ di amarezza per questa disparità di trattamento?
Sicuramente sì, perché questa differenza l’ho percepita da alcuni dettagli. Quando La Dionicius è venuta da noi, ricordo che il supervisore Rea, italiano, la presentava a tutti sottolineando che fosse imbattuta, come se fosse lei quella da proteggere. D’altro canto mi sono resa conto col passare del tempo e ripensando a tutto quello che è successo che forse l’obiettivo di tornare campionessa del mondo semplicemente non lo dovevo raggiungere. Una settimana prima del match, durante l’ultima sessione di guanti che ho fatto con Vissia Trovato, mi spaccai all’altezza del sopracciglio e mi misero dodici punti, di cui alcuni interni per non far vedere il taglio. La Dionicius era già partita, quindi mi dissero che non si poteva assolutamente non fare il match e io quindi lo feci lo stesso. Però combattere sapendo che un semplice soffio sul sopracciglio avrebbe fatto riaprire sicuramente tutto mi ha frenato tantissimo sul piano psicologico, soprattutto nella prima parte del match. Quindi tutto questo insieme di cose, compreso il fatto che non ci sia stata nessuna attenzione nei confronti dell’atleta di casa come succede spesso ovunque, mi ha fatto pensare che ci fosse un piano più alto che non prevedeva questo mio successo. Anche perché poi ho fatto un ultimo match in Messico in cui non mi sentivo me stessa, un bruttissimo match, ma mesi dopo ho scoperto di avere un brutto male; evidentemente non era nel mio destino tornare campionessa del mondo e alla fine l’ho accettato. Quello che ho vissuto dal giorno in cui ho varcato le corde del ring per la prima volta fino alla fine del mio percorso sportivo è stato molto più importante rispetto all’aver conquistato delle cinture o aver vinto dei titoli: c’è stata una grande crescita personale sotto ogni punto di vista.