Nell’arco della lunga storia delle Olimpiadi la nazionale italiana di pugilato si è tolta tante soddisfazioni. Numerosi sono stati infatti i nostri atleti capaci di conquistare medaglie, suscitare ammirazione e strappare applausi; pochi tuttavia hanno fatto brillare la propria stella più di quanto fece Maurizio Stecca nella suggestiva manifestazione a cinque cerchi di Los Angeles nel 1984. Membro di una squadra di tutto rispetto che avrebbe portato a casa ben cinque medaglie, il più giovane dei fratelli Stecca fu l’unico ad aggiudicarsi il metallo più prezioso. Oggi Maurizio compie 62 anni; per festeggiare la lieta ricorrenza andiamo a ripercorrere la sua strabiliante carriera attraverso le sue stesse parole!
Quello di vincere le Olimpiadi è un sogno che accomuna tutti i ragazzini che muovono i primi passi nel mondo dello sport. Tu ci sei riuscito e lo hai fatto in maniera travolgente, dominando tutti i suoi avversari fino alla bellissima finale con l’agguerrito messicano Hector Lopez. Ma quanti ostacoli occorre superare per approdare a un simile palcoscenico?
Prima di tutto per arrivare a disputare un’Olimpiade ci vogliono costanza, forza di volontà e una passione bestiale. Di solito occorre iniziare da piccoli e percorrere poi la propria strada passo dopo passo, con il sogno che si inserisce poco a poco nella testa. Io non ho dovuto percorrerne così tanta di strada, perché ho bruciato le tappe, tanto da arrivare a partecipare a un’Olimpiade a soli 21 anni. Ho cominciato con il pugilato a 13 anni e già dopo tre mesi sono diventato campione d’Italia a livello giovanile. L’anno dopo ho partecipato ai campionati italiani prima serie, trovandomi a gareggiare contro avversari che avevano anche più di 20 anni. A 16 anni ero già in Nazionale, i miei genitori non mi potevano stare molto dietro perché erano dei grandi lavoratori e così prendevo il treno da Rimini di notte per andare a Perugia. Se oggi un minorenne facesse la stessa cosa probabilmente arresterebbero i genitori. Dopo venti giorni tornavo a casa, poi tornavo per altri venti giorni e così via. Una volta non c’erano le qualificazioni olimpiche, ma il CONI pretendeva vittorie in campo internazionale ed io ero un vincente: ero diventato tre volte campione d’Italia, avevo già vinto 13 tornei, avevo anche vinto la Coppa del Mondo a Roma. E così nell’84 ci fu questa grande partenza di 350 atleti: la mia prima emozione l’ho vissuta sulla scaletta dell’aereo, non su quella del ring, perché sapevo che dentro c’erano i campioni di tutti gli sport. Partivo per Los Angeles ma non pensavo affatto a quello che mi sarebbe successo, anche perché io non ero il favorito nella mia categoria, pur essendo già conosciuto in Europa e nel mondo.
Il tuo esordio olimpico contro l’irlandese Philip Sutcliffe fu caratterizzato da un simpatico siparietto in diretta televisiva: il telecronista RAI Paolo Rosi diede la parola al tuo compagno di squadra Francesco Damiani, che ti rimproverò perché continuavi a scambiare nel terzo round dopo aver vinto i primi due…
Esatto, loro avevano paura che io non durassi fino alla fine, ma a me quelle energie servivano, perché l’irlandese mi stava attaccato come una piattola! Quando partecipi a una competizione e sai che in totale ci saranno dai cinque ai sei combattimenti, non puoi pensare di sprecare meno energie per arrivare in finale. In finale ci devi prima arrivare! Per me in un torneo ogni match era una finale, dovevo impiegare tutte le mie forze, e uscirne stremato, perché poi avevo due o tre giorni di recupero. Per essere lì c’erano voluti quattro anni di lavoro e la mia carriera poteva finire in nove minuti! Ma io nove minuti me li mangio tutti! Era questo il mio modo di ragionare, non potevo assolutamente perdere. Certo, nella vita ci sono anche le sconfitte, ti insegnano sempre qualcosa, ti fortificano il carattere; però la mia mentalità era che il mio avversario doveva ammazzarsi per battermi. La mia più grande difficoltà comunque in quelle Olimpiadi è stata la bilancia. Per fare i 54 chili mi sono massacrato, una volta era difficile essere seguiti da un medico o da un nutrizionista, o ce la facevi da solo o andavi a casa.
Curiosamente il pugile affrontato in semifinale a Los Angeles fu lo stesso pugile contro il quale conquistasti il tuo primo titolo mondiale da professionista, il dominicano Pedro Nolasco. Hai più rivisto quell’atleta dopo averlo sconfitto per la seconda volta a Milano nel 1989 facendo tua la cintura mondiale WBO dei pesi piuma?
Sì, perché io nel ’92 sono andato a Santo Domingo in vacanza e mentre mi trovavo in un villaggio turistico la gente del posto mi ha riconosciuto e mi ha portato da lui. Mi dissero che fece un incidente con la moto che gli provocò diverse escoriazioni su tutto il corpo e gli fece quasi perdere un braccio. Lui però era molto arrabbiato con me, faceva fatica persino a salutarmi e così io chiesi alla moglie per quale motivo mi trattasse così. Lei mi disse che io avevo preso molti soldi per fare il mondiale mentre a lui avevano dato meno. Io ho provato a farle capire che questo dipendeva dai manager, non da me… Io ho sempre temuto suo marito, perché era uno dei più grandi pugili che c’erano nell’America Centrale, era bravo. Quando fece le Olimpiadi era già come se fosse un professionista per via del suo modo di boxare, infatti io l’ho messo in difficoltà perché mi muovevo in continuazione. Da dilettante mi sono sempre mosso molto sulle gambe, avevo una grande scelta di tempo, velocità nelle schivate e nei rientri. Non facevo male, ma ero preciso e invece di mettere un colpo ne mettevo tre, tutti precisi. Passato al professionismo naturalmente ho diminuito il gioco di gambe, mi sono dovuto adattare. Quando hai nove minuti a disposizione devi dare tutto quello che hai nel corpo, perché le tre riprese passano veloci. Nel professionismo invece devi farne sei, otto, dieci o dodici e quindi ci sono anche fasi di studio e di ragionamento.
La sfortunata serata di Rimini che ti vide cedere il tuo titolo al terribile picchiatore americano Louie Espinoza lasciò molti tifosi italiani increduli e amareggiati. Con il senno di poi, crede sia stato un errore scegliere un pugile così pericoloso per una difesa volontaria?
Sì, ma su quella scelta volontaria ci fu un inghippo in Federazione. In breve, il mio manager aveva proposto tre o quattro nomi per quella difesa, ma nel settore pro della Federazione c’era un supervisor che doveva dare il nulla osta e questo supervisor bocciava tutte le proposte che il mio manager Umberto Branchini gli faceva. Forse non andavano d’accordo, questo non lo so. In ogni caso io ero l’atleta, dovevo allenarmi e combattere, non potevo occuparmi degli affari degli altri: era il mio manager che gestiva la mia carriera. Per me non faceva differenza affrontare questo, quello o quell’altro. In quella preparazione al mondiale però è successa una cosa che mi ha colpito molto: da quando ero diventato campione del mondo facevo preparazioni lunghe sei mesi, ma una settimana prima della data prevista per l’incontro mi dissero che l’avversario era cambiato e che il match era stato rimandato di altri due mesi. Mi ci voleva una preparazione diversa, perché il nuovo avversario era Espinoza. Non ricordo più chi fosse il pugile previsto all’inizio, era venuto fuori da una rosa di tre nomi, due sudamericani e uno statunitense. Il mio manager, che era molto bravo, mi procurò dei video dall’america, quindi sapevo che tipo di pugile fosse Espinoza, ma non ho avuto tempo sufficiente per prepararmi alle sue caratteristiche. Ecco qual è stato il problema, ma questa non vuole essere una scusante. Al settimo round ero in vantaggio ai punti e lo avevo anche un po’ tagliato sopra il naso, ma sapevo che lui veniva fuori col passare delle riprese, perché era un grande combattente. In un attimo lui mi attaccò, mi portò alle corde e mi colpì sull’occhio con un gancio largo. Dopo aver preso quel colpo non ci vedevo più e così alzai il guantone sinistro per coprirmi l’occhio, ma così facendo lasciai scoperto il fianco e lui con un secondo colpo mi prese in pieno il rene. Per recuperare il respiro ho messo il ginocchio a terra e mentre sentivo l’arbitro che contava, con l’occhio sano vedevo lui che era molto carico e pronto a tornarmi addosso. In quegli otto secondi ho fatto questo ragionamento: “Se mi alzo e continuo, rischio che mi chiuda la carriera. Se invece abbandono, il match finisce e poi vedremo se la mia carriera potrà continuare”. Infatti mi sono alzato e gli ho dato le spalle. Dopo due anni sono tornato campione del mondo, quindi penso che per me quella sia stata la scelta giusta.
Dopo aver riconquistato il titolo e averlo poi lasciato in terra britannica nelle mani dell’inglese Colin McMillan, molti credettero che la carriera di Maurizio Stecca non avesse altro da dire. Invece hai saputo regalarci ancora grandi emozioni con le battaglie sostenute in Francia per il titolo europeo. Cosa ti è rimasto impresso di quelle quattro trasferte racchiuse in soli nove mesi?
Quello è stato un anno micidiale! Mi portarono prima di tutto a fare il Campionato d’Europa con Benichou. Io lo conoscevo perché lui aveva combattuto anche in Italia, dove si era fatto gestire proprio da Branchini. Era molto quotato a quel tempo e infatti era già alla quarta difesa del titolo. Mi tirò un gancio nel primo round e io finii col sedere per terra; mi sono rialzato, ho vinto tutte le restanti undici riprese e sono diventato Campione d’Europa. Feci un grandissimo combattimento che piacque anche ai francesi, tanto che mi fecero firmare un contratto per difendere il titolo in Francia. Il match successivo contro Herve Jacob lo stavo vincendo ai punti, quando nell’undicesimo round lui mi diede una testata che mi provocò una piccola ferita al centro della fronte. L’arbitro chiamò subito il medico e il medico appena vide la ferita diede lo stop. Non era una ferita grossa e non era nemmeno vicino agli occhi, ma ne approfittarono. Fortunatamente quella sera c’era un supervisor svizzero che si chiamava Stucchi, uno dei più grandi supervisor d’Europa, il quale fece la sua relazione e scrisse che il match doveva essere ripetuto. Noi facemmo ricorso e poi venimmo a sapere che il medico in questione non era il medico indicato dalla federazione francese per la riunione, ma un medico delle carceri di quella città. Nel decimo round della rivincita portai un destro mentre eseguivo uno spostamento e lui mi crollò davanti come le torri gemelle. In quel momento mi sono meravigliato, perché il KO arriva quasi sempre quando non te l’aspetti: se lo vai a cercare non lo trovi e rischi tu stesso di andare KO, perché ti scopri e non riesci a ragionare. Infine il quarto europeo lo feci con Stephane Haccoun, molto conosciuto in Francia, che arrivò al match accompagnato da un giaguaro in una gabbia. È stato uno degli avversari più scorbutici che ho affrontato nella mia carriera professionistica. Era un mancino, più basso di me e molto tarchiato, sapevo già che dovevo solo tenerlo lontano; dovevo fare un match simile a quello che avevo fatto con Benichou. Appena mi avvicinai, mi portò un gancio, ma invece che con il pugno mi colpì col gomito e mi provocò la prima ferita. All’angolo avevo il dottor Mario Ireneo Sturla, che è stato anche il medico di Giovanni Parisi. Lo volevo sempre all’angolo perché mi dava sicurezza. Quando vide quella prima ferita mi disse: “Maurizio, non ti preoccupare, andiamo avanti”. Dopo due riprese accadde di nuovo la stessa cosa: altro gancio, altro impatto col gomito e altra ferita. Questa volta Sturla mi disse: “Questa è una ferita molto brutta, se andiamo avanti potresti perdere la vista”. Io volevo andare avanti, non volevo perdere così, ma ho ragionato un attimo e alla fine ho perso per ferita.
Solitamente il Titolo Italiano è il primo traguardo a cui puntano i nostri pugili. Tu invece curiosamente lo hai conquistato in occasione del tuo ultimo match da professionista, battendo Athos Menegola in dodici riprese. Come si spiega un percorso tanto atipico?
[Ride NDR] Non lo so. Non c’è un motivo vero e proprio, c’è stato un percorso. Io non me lo sono mai chiesto perché facevo il pugile, la gestione di tutta la mia carriera era compito del manager. Del resto non ero più nel dilettantismo, dove tutto era programmato e organizzato. Il professionismo è un lavoro e se ti capita un’occasione prima del previsto, perché non sfruttarla? Branchini era uno dei più grandi manager, lo chiamavano il Cardinale e per me era un mentore. Era molto conosciuto in America, aveva rapporti anche con Lou Duva e Don King, abbiamo visto tutti che carriera ha fatto fare a Damiani. Io comunque non rimpiango assolutamente nulla, devo dire soltanto grazie per la vita che ho fatto. Anche se ci sono state vittorie e sconfitte, credo di aver avuto un’eccellente carriera.