Nessuno sa con precisione quando è nato. Non lo sanno gli storici, non lo sapeva lui, e non lo ricordava nemmeno la madre. Non solo, nessuno sa con precisione nemmeno quando è morto: questi i contorni sfumati di una vita avvolta nell’ombra, tra cupi ricordi di un’infanzia mai vissuta, un’effimera quanto incredibile carriera sul ring e una fine che non avrebbe potuto essere diversa.
Sonny Liston è stato uno dei più grandi pugili di ogni tempo. Ma soprattutto, Sonny è stato un uomo, “a man”, come indicato sulla sua lapide: non una celebrazione di virilità, bensì la più banale eppure intensa dichiarazione di umanità e fragilità, coraggio e caducità che sia dato ricordare.
La vita di Sonny pare un romanzo dal tragico epilogo. Oggi si celebra il suo compleanno, ma la data non ha alcun valore: la scelse Sonny, solo ed esclusivamente perché serviva una data di nascita per poter combattere.
Liston è stato un pugile incredibile, dal talento cristallino e dalla mole impressionante. A vent’anni era alto circa un 182 cm per 90 kg di peso, con un collo definito da tutti taurino e soprattutto mani enormi, indurite dalle circostanze.
Sonny è stato anche bambino, ma un’infanzia non ce l’ha mai avuta. Nato Charles L. Liston (nessuno sa cosa stia ad indicare la L.) tra il 1925 e il 1932 in Arkansas, a Sand Slough, che letteralmente significa palude di sabbia, piantagioni di cotone e paludi a perdita d’occhio, Sonny era il penultimo figlio di un mezzadro abusivo con 25 figli e 2 mogli. Sonny non andò mai a scuola, e non imparò mai a leggere e scrivere. A otto anni cominciò a raccogliere cotone e a collezionare cicatrici: nella mente, sul volto ma soprattutto sulla schiena, segni mai cancellati delle frustate che riceveva quotidianamente dal padre, Tobe Liston, un piccolo uomo violento e meschino, che segnò profondamente l’infanzia del figlio: “L’unica cosa che il mio vecchio mi abbia mai dato è un pestaggio”. Ricorderà in seguito: “Non avevo niente da bambino se non molti fratelli e sorelle, una madre indifesa e un padre a cui non importava niente di nessuno di noi”.
Nel 1946 la madre abbandonò quell’uomo violento e sadico, portando con sé solo alcuni dei figli – probabilmente a causa della fuga – e rifugiandosi a Saint Louis, dove trovò impiego in una fabbrica di scarpe. A 14 anni circa, dopo aver venduto per alcuni spicci delle noci pecan, Sonny scappò dalla piantagione, andando alla ricerca della madre e ricongiungendosi con essa. Provò ad andare a scuola, tentò di inserirsi, ma venne sempre deriso ed emarginato per il suo analfabetismo. Finì conseguentemente nell’unico modo in cui avrebbe potuto andare: Sonny entrò in una banda di giovani delinquenti dedita a furti e rapine. Da lì al carcere il passo fu breve. Nel ‘49 fu arrestato per una rapina allo Unique Cafè, vicino a dove risiedeva, e identificato come “il negro con la camicia sgargiante”. Nel 1950 fu condannato e incarcerato nel Missouri State Penitentiary, a Jefferson City.
In carcere imparò a boxare grazie ad un detenuto di nome Sonny. Quel nome gli piaceva, il tizio anche, perciò fece suo quell’appellativo. La prima volta che uscì dal carcere, nel 1952, fu grazie alla mafia. Si era fatto notare per le doti fisiche e pugilistiche: tra le mura del penitenziario aveva steso chiunque. Sonny fu rilasciato sulla parola, grazie ad una campagna della stampa locale, pilotata da Frank Mitchell, direttore di un quotidiano di Saint Louis, titolare di una scuderia di pugili e vicino agli ambienti della mafia. Nel Settembre del 1953 divenne professionista. Grazie a Mitchell, Sonny entrò nell’orbita di Frank Vitale, boss della mafia italo-americana della città, a sua volta collegato a Frank Carbo, responsabile per le scommesse legali e clandestine di Cosa Nostra. Oltre che pugile, Sonny fu anche “esattore” per conto di Vitale.
Sono anni concitati. Sono gli anni delle segregazioni razziali, dei diritti negati ai neri, del blues e del jazz e soprattutto dell’egemonia della mafia, che si insinuò agevolmente negli ambienti pugilistici. Sonny si muoveva tra le fila, cercando di districarsi tra i grovigli di una vita fin troppo gravosa. Ricorderà Johnny Tocco, uno dei suoi primi allenatori: “Era un solitario, fosse stato per lui non avrebbe parlato con nessuno… Veniva sempre in palestra da solo. È sempre andato via da solo. La polizia sapeva che era stato in prigione, che avrebbe continuato [a delinquere, ndr.] e che lo avrebbero cercato per fermarlo”.
Nel 1956 conobbe ad una fermata dell’autobus Geraldine Clark Chambers. Pioveva a dirotto, e così Liston pensò di prendere delicatamente in braccio la donna, portarla in auto e accompagnarla a casa. Circa un anno e mezzo dopo i due si sposarono.
Nonostante Geraldine, Sonny non riuscì mai a stare lontano dai guai. Fu vittima di arresti assolutamente ingiustificati così come di episodi di vagabondaggio, alcolismo, violenza e resistenza a pubblici ufficiali. Finì per scappare da Saint Louis rifugiandosi a Philadelphia.
Quella di Sonny fu una rapida ascesa: sul ring era sempre stato inarrestabile, ad eccezione di quella volta in cui era scoppiato a ridere a causa degli atteggiamenti clowneschi del pugile Marthy Marshall. Ma fu solo un episodio.
Sonny schiantò per ben due volte Floyd Patterson, il campione del mondo, in meno di un round, nonostante avesse tutti contro: rappresentava il male, era troppo “negro” e come tale andava sconfitto, anche per il presidente Kennedy, che non mancò di telefonare a Patterson per sostenerlo.
Poi fu la volta di Ali.
Ali aveva provato ad intimorirlo con quei suoi modi spavaldi e a tratti grotteschi. Lo irrideva chiamandolo “Grande Orso Cattivo”. Ma aveva sempre temuto quell’uomo dallo sguardo torvo.
La prima volta che si incontrarono, nel ‘64, il match finì con il ritiro di Liston al 7o round, a causa di una spalla lussata. Tuttavia sul match piombò l’ombra della combine. Sonny era apparso remissivo, e l’abbandono quanto meno sospetto visto che anni prima aveva combattuto dieci riprese con la mascella fratturata, mostrando grande resistenza al dolore. Un anomalo flusso di scommesse contro il favorito rafforzò i sospetti.
La rivincita, che divenne famosa per il pugno “fantasma”, fu ancor più surreale e si svolse in un clima di tensione sociale difficilmente immaginabile, soprattutto a causa dell’assassinio di Malcom X. Sono state avanzate varie ipotesi su quanto accadde quella notte, ed entrano i gioco le minacce di Nation of Islam a Liston, che non accettò mai di aderirvi, così come le pressioni subite dagli ambienti mafiosi.
Gli anni successivi videro il declino di Liston, impegnato in incontri di poco spessore ed evitato come la peste dai pugili più quotati.
Il 5 Gennaio del 1971 Sonny fu trovato morto da Geraldine nella loro casa di Las Vegas. Il suo corpo era già in stato di decomposizione: fu impossibile stabilire con precisione la data del decesso, ma si ipotizzò che fossero passati sei giorni. L’autopsia rivelò tracce di morfina e codeina, risultanti dall’assunzione di eroina.
Alcuni ipotizzano che finì i suoi giorni depresso, trovando conforto nell’eroina, a cui era stato iniziato dall’amico e idolo di sempre Joe Louis. Sonny, però, era terrorizzato dagli aghi e questa ipotesi è sempre parsa quanto meno dubbia. Secondo molti, semplicemente Sonny fu assassinato perché intenzionato a rivelare i retroscena degli incontri del ‘64 e ‘65 con Ali. Ma sono e rimangono ipotesi.
Di Liston sopravvivono immagini, ricordi e rimpianti per una vita che non avrebbe potuto andare diversamente. Tra queste, quella di Sonny impegnato ad imparare a scrivere il proprio nome, con l’aiuto della moglie, per non dover negare a nessuno un autografo. Un’immagine surreale, lontana dalla percezione di individuo pericoloso e violento. Chi lo conosceva bene, lo ha sempre descritto come premuroso e fin troppo sensibile. Probabilmente, le due facce della stessa medaglia. Sonny è stato questo ed altro ancora. Più di ogni altra cosa, Sonny è stato semplicemente un uomo.