Sandro Mazzinghi: ricordo di un indomabile guerriero italiano

“Non è forte chi non cade, ma chi cadendo ha la forza di rialzarsi”. Una frase sentita innumerevoli volte, talvolta riferita alla boxe, talvolta alla vita stessa. Tanti campioni del presente e del passato hanno incarnato bene questo motto, ma se ce n’è uno che poteva a buon diritto tatuarselo sul petto, questo è stato Sandro Mazzinghi, lo straordinario pugile toscano che annoveriamo oggi tra i più forti picchiatori italiani di ogni tempo. Tante volte questo formidabile atleta nato a Pontedera dovette subire colpi durissimi, dentro e fuori dal ring; colpi che avrebbero lasciato inerte il più coriaceo degli uomini, ma da cui Sandro si riprese sempre, ritrovando la strada per nuove vittorie.

L’esclusione dalla squadra olimpica che nel 1960 si sarebbe esibita davanti al pubblico di Roma lo spinse a cercare migliori fortune nel professionismo, un habitat più adatto alle sue caratteristiche di indomabile guerriero che infatti lo vide ergersi sulla vetta del mondo dopo appena due anni dall’esordio. Il tragico incidente che a soli 12 giorni dal matrimonio lo privò della sua consorte e gli causò una frattura alla scatola cranica gli fece vedere il ring come un rifugio adatto a scacciare l’orrore dei ricordi e ritrovare se stesso. La duplice sconfitta con l’eterno rivale Nino Benvenuti lo motivò a riprendersi la gloria con le unghie e con i denti, dalla conquista dell’Europeo al Mondiale riacciuffato a Milano davanti a una folla oceanica. Infine, la scelta della Federazione di interromperne i tentativi di rientro sulla soglia dei 40 anni, non concedendo deroghe al limite di età, lo portò a reinventarsi come cantautore e come scrittore, guadagnandosi ulteriori plausi e riconoscimenti.

Ad ogni battuta d’arresto subita dunque, Mazzinghi ha saputo rispondere prendendo la rincorsa per una nuova vittoria. Se da pugile si esaltava nello scambio, cresceva col passare dei round, incassava senza battere ciglio e demoliva poco a poco le resistenze dei rivali, da uomo non è stato da meno, andando avanti a prendersi le sue meritate soddisfazioni a dispetto di ogni sgambetto che la sorte ha provato a tendergli.

Nel maggio del 2020 ho avuto l’onore di intervistare l’inossidabile picchiatore di Pontedera, un vero e proprio sogno realizzato per me che, pur essendo troppo giovane per aver vissuto in diretta le sue gesta sportive, ho sempre considerato Mazzinghi il mio preferito tra i grandi esponenti della storia pugilistica italiana per via del suo stile, del suo coraggio e della sua caparbietà.

Poco più di tre mesi dopo, il 22 agosto, la tragica notizia della scomparsa di Sandro mi ha profondamente colpito, lasciandomi sgomento. Oggi, nell’anniversario della nascita del grande Mazzinghi, avendo ricevuto la cortese autorizzazione del figlio David, ripropongo quell’intervista per i lettori di Boxe Punch.

Il sogno di partecipare alle Olimpiadi accomuna molti giovani pugili. Nel suo caso il sogno sfumò a vantaggio di Carmelo Bossi che rappresentò l’Italia nel 1960 nella categoria dei superwelter. Quanta spinta le diede quella delusione nell’inseguire con veemenza ancora maggiore i traguardi che poi sarebbe riuscito brillantemente a tagliare da professionista?

Beh, devo dire che ho sempre condiviso la scelta di Rea di mettere Carmelo Bossi al mio posto, anche se quella delusione mi diede una grande spinta. Infatti nel 1961 passai subito professionista e lì fu un’altra cosa: dal ’61 al ’62 feci 17 combattimenti, tutti vinti con campioni di alto livello; mi allenavo dalle otto alle nove ore al giorno, dovevo arrivare al titolo Mondiale, chance che ottenni nel 1963.

La sua travolgente prima parte di carriera pro la condusse nel giro di soli due anni a sfidare il campione del mondo dei superwelter Ralph Dupas, pugile dall’esperienza immensa che quello stesso anno era stato privato ingiustamente della vittoria contro il leggendario Sugar Ray Robinson. In quelle due sfide con Dupas, una in Italia e una in Australia, si vide il meglio di Mazzinghi: l’aggressività, il coraggio, la potenza e la capacità di resistere alle ferite. Quali momenti cruciali di quel doppio confronto le sono rimasti più impressi?

Avevo 25 anni e una voglia di arrivare che non vi dico; giunsi al primo match con Dupas con 29 combattimenti all’attivo e lui pensate ne aveva 124, un mostro sacro, ma io avevo una cosa in più: avevo la grinta, la forza, il cuore, l’impeto di non dare fiato a nessun avversario, tanto meno a lui che era Campione del Mondo. Quel titolo lo volevo io e mi ritrovai a Milano al Vigorelli di fronte a un uomo esperto, furbo e dotato di mestiere, ma alla nona ripresa lo misi KO. Ero il nuovo Campione del Mondo dei superwelter, provo ancora oggi quando ne parlo la solita emozione.
A Sydney in Australia per la rivincita ci fu la conferma che in quel periodo della mia carriera non avevo rivali e al tredicesimo round con un destro di incontro lo misi nuovamente KO dopo che con una testata mi aveva rotto lo zigomo sinistro. Non vi dico, lo Stadium di Sydney esplose in un boato, era stracolmo di italiani emigrati… Che emozione, lo ricordo ancora!

Della tragedia che sconvolse la sua vita appena dodici giorni dopo il suo matrimonio si è tanto parlato. Oggi le chiediamo se a distanza di anni ritiene un errore essere tornato sul ring così presto, quando il trauma era ancora fresco nel suo fisico e nella sua psiche, invece di concedersi il giusto tempo per recuperare dallo shock. Come riuscì a salire sul ring con un simile peso sul cuore continuando a cimentarsi in uno sport che solitamente richiede una mente sgombra e un animo sereno?

Io devo ringraziare il pugilato, in quei momenti se non avessi avuto la boxe non so come sarei potuto uscire da una situazione del genere. Tutti mi dicevano che mi sarei dovuto fermare per recuperare, ma io sapevo che dovevo tornare subito a combattere anche se sentivo che in me c’era qualcosa che non andava… LO SPORT MOLTO SPESSO TI SALVA!

Nino Benvenuti ha speso per lei molto spesso parole di ammirazione, affermando che da parte sua non c’è mai stata rivalità e che lei è stato senza dubbio uno dei suoi avversari più difficili. La telefonata che lei fece a Nino a valle del suo intervento chirurgico di due anni fa è stata interpretata da molti come una mano tesa per la pace definitiva. Possiamo ritenere risolto una volta tutte il vostro dualismo? E quali ricordi positivi associa a quel doppio duello che tenne l’Italia col fiato sospeso?

Beh, la nostra è stata una rivalità pura, sanguigna, come solo due grandi sportivi possono avere. All’epoca c’erano le tifoserie dei Mazzinghiani e dei Benvenutiani il che alimentava un enorme giro di affari e tutto ciò è fantastico perché in Europa e nel Mondo siamo gli unici ad aver dato vita a un dualismo così forte.
Comunque a parte i verdetti, oggi posso dire di aver un ricordo positivo di quei match: lui dopo passò nei medi e io ritornai prima Campione d’Europa e dopo nuovamente Campione del Mondo. Oggi abbiamo oltre 80 anni, a ottobre saranno 82 anche per me e mi sento di dire che la nostra è stata una bella storia, un’affascinante “Storia di Boxe”, forse unica nel suo genere.

Dopo la doppia sfida con Benvenuti si rimise subito in carreggiata con la conquista del titolo europeo e la formidabile corsa verso il nuovo trionfo mondiale. L’epica battaglia contro il coreano Ki-Soo Kim, che le restituì la vetta del mondo davanti a uno stadio San Siro gremito, rappresenta ancora oggi uno dei match più spettacolari mai disputati da un pugile italiano. Quanta forza le diedero quelle 60mila voci scatenate? È concepibile un pugilato senza spettatori come alcuni ipotizzano per riprendere l’attività in tempo di pandemia?

Sì, come dicevo prima conquistai la corona europea e poi la difesi a Stoccolma l’11 novembre del 1966 con lo Svedese Bo Hogberg, che match ragazzi! E che Campione che era! Ma con Ki-Soo Kim fu una corrida tra due tori scatenati. Una sensazione unica, avevo aspettato tre anni per battermi nuovamente per il titolo del mondo, riportai il titolo nelle mie mani e degli italiani. San Siro era stracolmo, 60mila persone lì per me che scandivano il mio nome, lo dovevo a me stesso e a tutti quelli che avevano creduto in me. Non dimenticherò mai quelle sensazioni e quel pubblico.
Il pubblico, come in tutte le attività sportive, è FONDAMENTALE e spero che dopo questo blocco dello sport si possa ritornare a vedere dal vivo qualsiasi manifestazione sportiva, naturalmente con le dovute precauzioni, perché credo, anche se spero di sbagliarmi, che dovremo convivere con questo maledetto avversario ancora per un po’.

La storia della boxe ha visto numerosi pugili compiere imprese straordinarie in età non più giovanissima: Archie Moore, George Foreman, Bernard Hopkins e tanti altri hanno detenuto un titolo mondiale ben oltre i 40 anni. Lei fu fermato quando di anni ne aveva 39 e cercava di togliersi qualche ultima soddisfazione. Fu un errore non concederle la chance di regalare all’Italia un’ulteriore vittoria di prestigio?

Tornai sul Ring a 38 anni perché avevo dei buoni contratti e delle ottime borse e non vi nascondo che se avessi potuto avrei combattuto fino all’infinito, come si dice: IL PRIMO AMORE NON SI SCORDA MAI. Certo che avrei regalato alcune vittorie di prestigio, avevo riscoperto una seconda giovinezza, ma purtroppo qui in Italia al compimento dei 40 anni si doveva smettere e le regole vanno rispettate sempre e comunque, come io ho sempre fatto nella mia vita di pugile e di cittadino.

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