Intervista a Francesco Damiani, il nostro ultimo campione tra i giganti

I pesi massimi tradizionalmente non portano molta fortuna al nostro Paese. Se si eccettua il legame di sangue del grande Rocky Marciano, nato e cresciuto in USA ma figlio di emigranti italiani, il tricolore ha infatti avuto a che fare ben poche volte con l’élite della categoria dei giganti. Basti pensare che lo storico trionfo di Primo Carnera, capace di laurearsi campione del mondo nel 1933, dovette attendere ben 56 anni prima di essere parzialmente “bissato”. A riuscire nell’impresa fu il nostro Francesco Damiani, che nello stadio Nicola De Simone di Siracusa fece sua la neonata cintura WBO nel 1989.

Indubbiamente un titolo di sigla non vale quanto quello unificato, ma il fatto stesso che nessun pugile italiano sia più riuscito a eguagliare l’impresa di Francesco dimostra il valore di quel successo e deve renderci orgogliosi di lui. È stato dunque un piacere per noi di Boxe Punch confrontarci con Damiani in persona nel giorno del suo 67esimo compleanno sulle tappe più significative della sua invidiabile carriera. Un percorso che lo ha visto vincere due ori europei, un argento mondiale e un argento olimpico da dilettante oltre al titolo europeo e a quello mondiale da professionista.

La sua carriera dilettantistica è stata ricca di soddisfazioni, ma forse il momento più emozionante e indimenticabile, al di là delle medaglie e dei risultati di prestigio, fu la vittoria del 1982 sul cubano Teofilo Stevenson. Ci descrive quella serata magica in cui riuscì a battere nettamente un autentico monumento di questo sport?

Stevenson per me è sempre stato un mito: nel 1976, quando ancora dovevo entrare in palestra per la prima volta, guardavo le Olimpiadi di Montreal e seguivo soprattutto il pugilato perché c’era Stevenson. Quindi quando nell’82 al sorteggio mi è capitato lui, sapevo che era un grande campione: aveva già vinto tre Olimpiadi e due Campionati del Mondo… Io ero entrato da poco nella Nazionale, ma forse loro si erano dimenticati che nel 1981 avevo vinto i Campionati Europei. Non lo dico per sminuire la mia vittoria, però quella sera sul ring forse lui mi ha sottovalutato, pensando che sarei stato la vittima di turno. E invece sono riuscito a contrastare il suo pugilato, sono stato più furbo e ho vinto. È stata una di quelle vittorie sportive che ti fanno fare il salto di qualità, un po’ come quella di Filippo Tortu quando ha fatto 9″99 sui cento metri: una prestazione del genere ti proietta in un’altra dimensione. C’era già un certo interesse nei miei confronti, ma da quel giorno è aumentato e ho iniziato a fare le cose ancor più seriamente.

Una striscia di 18 successi consecutivi la condusse a battersi per il titolo europeo contro il gigante svedese Anders Eklund, alto 2 metri e molto potente. In quel match si vide tutto il suo repertorio, comprese doti che spesso non le vengono attribuite, come la capacità di soffrire e la cattiveria nel chiudere con le maniere forti. Fu una vittoria più impegnativa del previsto?

Devo premettere che era tutto il team a fare in modo che io dessi il meglio quando salivo sul ring. Ad esempio il mio manager mi procurava sempre degli sparring partner adatti in base al tipo di incontro che dovevo fare. Io Eklund lo conoscevo, me lo ricordavo dai Campionati Europei dilettantistici in Finlandia, però nelle prime riprese mi ha messo in difficoltà e mi ha anche aperto una ferita all’arcata sopraccigliare con un colpo. Naturalmente, sapendo che era un titolo alla mia portata e che dovevo assolutamente fare di tutto per portarmi a casa l’Europeo, ho stretto i denti e sono andato avanti. Alla fine sono riuscito a batterlo in maniera molto netta, ma è stato un grande avversario, non me l’aspettavo. A volte quando vedi gli incontri del tuo prossimo rivale pensi che batterlo sia facilissimo, ma poi sali sul ring e ti accorgi che non è così.

Dopo essere diventato campione d’Europa ebbe la possibilità di vendicarsi di quel Tyrell Biggs che da dilettante era stato la sua bestia nera. Quanta soddisfazione le diede batterlo prima del limite impiegando addirittura meno round di quelli che erano serviti a Mike Tyson un anno prima?

Quella sera sono salito sul ring con la voglia di batterlo molto nettamente. Devo riconoscere che Biggs è stato un signor avversario, un pugile che mi ha fatto soffrire nelle prime riprese perché aveva un jab sinistro imprevedibile, però la rabbia per il mondiale che mi aveva rubato era davvero tanta. Era successo nel 1982 e all’epoca non potevi avere subito i filmati a disposizione su YouTube; io sono sempre stato restio a rivedere i miei match, ma quella volta sono andato alla RAI per farmelo dare e ho gridato allo scandalo. Lui era velocissimo e io sapevo di dover essere più veloce di lui perché altrimenti avrebbe evitato tutti i miei colpi. All’improvviso ho concentrato tutta la mia rabbia nel gancio destro con cui l’ho ferito e quella è stata l’esplosione di tutto ciò che avevo dentro. Ho vendicato tutto, i mondiali e le Olimpiadi, ed è stata una bella soddisfazione, però la medaglia d’oro mi manca sempre. Ho la medaglia d’argento, che è bella: quando hai vinto l’argento e guardi avanti vedi uno solo davanti a te, se ti volti indietro ne vedi venti, il che vuol dire che hai fatto qualcosa di importante. Però la medaglia d’oro è sempre la medaglia d’oro.

Sconfiggendo il sudafricano Johnny Du Plooy in tre riprese lei divenne il primo peso massimo della storia a laurearsi campione del mondo della WBO. Possiamo definire quel gancio sinistro il KO più bello della sua carriera? E cosa significò per lei quel trionfo?

Quel gancio sinistro secondo me è stato il più “pulito” della mia carriera. Anche il gancio destro che ho messo a Stevenson nella terza ripresa è stato un gran gancio. Quello con cui ho messo giù Du Plooy effettivamente è stato proprio un colpo pulito, tra l’altro ripreso con l’angolazione giusta dalla TV. È stata una bella soddisfazione diventare campione del mondo, anche se sul momento non me ne sono reso conto: ho realizzato soltanto in seguito. Quel mondiale in un certo senso è stato la “torta” della mia carriera. La ciliegina sarebbe stata affrontare Holyfield o Tyson.

In effetti dopo la sfortunata sconfitta contro Ray Mercer lei andò a un soffio dal battersi con Evander Holyfield, salvo poi rinunciare per un infortunio alla caviglia. In quegli anni nella categoria regina circolavano nomi leggendari: oltre a Holyfield c’erano Mike Tyson e il redivivo George Foreman. Se potesse tornare indietro e sceglierne soltanto uno, chi le piacerebbe affrontare?

Premetto che avrei combattuto con tutti e tre. Però, se devo sceglierne uno, allora dico Mike Tyson. Affrontare lui sarebbe stato il completamento di tutta la mia carriera: anche se avessi perso avrei avuto la consapevolezza di aver fatto il massimo e di essere arrivato ai massimi livelli. La stessa cosa vale per Holyfield, mentre con Foreman forse sarebbe stato un po’ diverso, visto che era al rientro dopo il lungo stop. Un match con Holyfield o con Tyson sarebbe stato davvero la ciliegina sulla torta di cui parlavo prima.

Che incontro sarebbe stato Tyson vs Damiani? Ha mai provato a immaginarlo nella sua mente?

Mi è capitato tante volte di incontrare pugili con quello stile. Ad esempio da dilettante ho combattuto con Valery Abadzhyan, che attaccava a testa bassa e cercava il contatto [pugile dilettante sovietico che mise KO Lennox Lewis, NDR]. Tyson faceva così, era uno che teneva la testa chiusa tra le braccia, cercava il contatto e quando arrivava vicino scaricava i suoi colpi. Portava quei ganci corti e stretti che sono difficili da vedere. Io avrei dovuto cercare di superare le prime cinque riprese senza subire troppi danni e poi sperare di averne ancora per crescere nelle altre. Però dire come sarebbe andata è difficile, bisogna trovarsi lì sul momento per rendersi conto. Mercer è stato un mio avversario di quella tipologia, ma meno forte, meno rapido e meno incisivo, perché Tyson quando partiva con quei suoi ganci era terribile. A prescindere da come sarebbe andata comunque, io quel match l’avrei fatto volentieri. Quando ho chiesto al mio manager se ci fosse mai stato un contatto, Branchini mi ha risposto che ci avevano contattato, ma che volevano farci firmare un contratto “a strozzo”. Questi sono aspetti manageriali e io all’epoca facevo il pugile, quindi non vi so dire i dettagli, ma da quello che mi è stato detto l’offerta non era soddisfacente.

Dopo di lei purtroppo nessun pugile italiano è più riuscito a conquistare un mondiale nella categoria dei pesi massimi. Di recente le speranze di molti appassionati italiani sono state riposte in Guido Vianello, che lei conosce molto bene. Alcuni anni fa lei si era detto convinto che Guido sarebbe riuscito un giorno a battersi per il Titolo Mondiale. Resta convinto di quella previsione alla luce dei risultati e delle performance recenti del nostro pugile?

Ho guardato l’ultimo match che ha perso ai punti contro l’americano Torrez e credo che Guido, nonostante la sconfitta, si sia comportato bene. Ha cominciato a costruire un fisico “da professionista”. Io ho fatto il dilettante un po’ più a lungo rispetto a lui; lui ad alti livelli lo ha fatto per pochi anni. Quindi quando è passato professionista aveva una boxe ancora “dilettantistica”, ma poi, passo dopo passo, ha trasformato il suo pugilato. Adesso, dopo aver visto il suo ultimo incontro, credo abbia ancora qualcosa di importante da dire nella categoria dei massimi. Naturalmente per farlo dovrà allenarsi bene per prepararsi a quello che lo aspetta sul ring. Lì gli arbitri non sono come da noi, non fermano il match a ogni scorrettezza: negli Stati Uniti vogliono lasciare spazio allo spettacolo e sono molto più permissivi, quindi bisogna abituarsi. Comunque io sono convinto che possa ancora fare il salto di qualità e non sono l’unico a pensarla così, perché Bob Arum gli ha prolungato il contratto con la Top Rank, il che significa che continuano a credere in lui anche loro. Ora ha in programma un altro match duro, contro un avversario imbattuto, ma è normale che sia così, sono gli step che bisogna percorrere. Quando io sono passato professionista, all’inizio mi davano degli avversari morbidi, per farmi crescere e per farmi abituare ai vari stili di combattimento, ma dopo, quando vai avanti e arrivi a un certo livello, sei costretto a batterti con pugili che “ti misurano la febbre”, che ti fanno capire dove puoi arrivare: o sono imbattuti o comunque hanno poche sconfitte. Guido ha 31 anni, è nel pieno della maturità fisica e penso che ci possa ancora regalare delle belle sorprese.

Un’ultima domanda prima di lasciarla ai festeggiamenti per il suo compleanno: c’è qualche giovane promessa nel nostro panorama nazionale che la rende speranzoso per il futuro?

Da quando sono uscito dal giro della Nazionale non ho più molti contatti. Prima di andare via seguivo un ragazzo campano, Paolo Caruso, che fino a tre anni fa mi dava delle sensazioni molto positive: giovane, talentuoso, abile nel fare il pugilato. Noi però in Italia siamo un po’ particolari: una volta c’erano manager di grande spessore che non appena saltava fuori un pugile buono se lo accaparravano e lo facevano passare professionista. Adesso invece, prima devono fare il giro della Nazionale, poi se anche si fanno notare, quando passano pro non hanno grande supporto e manager di alto livello disposti a investire su di loro. L’ultimo è stato proprio Guido Vianello a essere messo sotto contratto da un promoter di caratura internazionale come la Top Rank; altri pugili non ricevono lo stesso sostegno. Caruso l’ho avuto in Nazionale come Youth: è arrivato secondo ai Campionati Mondiali perdendo in finale contro un pugile cubano in un match che secondo me non aveva neanche perso. Poi non so quale evoluzione abbia avuto la sua carriera, io ormai sono uscito dal giro… Però era veramente un ragazzo con delle qualità fuori dal comune.

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