Imane Khelif ce l’ha fatta: la medaglia d’oro che ogni atleta ambizioso sogna di mettersi al collo fin dalle prime sedute di allenamento in palestra, è finalmente tra le sue mani. Un trionfo meritato quello dell’algerina, ma meno semplice di quanto i cartellini ufficiali dei cinque giudici possano far pensare. La sua avversaria, la cinese Yang Liu, l’ha costretta a un match molto tattico, tutto basato sul controllo della distanza e sulla scelta di tempo, senza darle bersaglio fisso e punti di riferimento.
Alla fine però la differenza di concretezza tra i colpi delle due pugili ha pesato agli occhi della giuria, la cui schiacciante unanimità lascia pensare che forse la clamorosa vicenda di cui Khelif è stata suo malgrado protagonista nel corso di questi Giochi abbia avuto un impatto, quantomeno emotivo, su chi è stato chiamato a emettere il verdetto finale nella categoria dei 66 chili.
Vicenda surreale e tremendamente complessa quella che ha coinvolto l’algerina Imane Khelif e la taiwanese Lin Yu Ting nelle ultime settimane. Un caso dibattuto ovunque che ha generato una polarizzazione fortissima tra posizioni opposte. Un caso che riesce a coinvolgere contemporaneamente campi apparentemente assai distanti come la biologia, la geopolitica e l’informazione pubblica. Un caso su cui tutti, fatte salve poche lodevoli eccezioni, ritengono di avere le idee chiarissime e sentenziano pubblicamente con la sicumera di un Premio Nobel interrogato sull’oggetto del suo studio più riuscito.
Non è casuale che questo articolo esca così tardi. I giornali hanno versato fiumi di inchiostro, le persone comuni, molte delle quali non avevano mai visto un incontro di boxe prima d’ora, hanno consumato i tasti dei loro computer e i display dei loro smartphone dibattendo senza tregua del caso Khelif e io, che dirigo un sito di informazione sul pugilato, sono rimasto silente, stordito da un flusso di informazioni contraddittorie e incoerenti, incapace di prendere posizione prima di aver studiato a fondo la faccenda.
La prima volta che mi sono imbattuto nel “caso Khelif” stavo leggendo distrattamente, senza scopi specifici, gli ultimi post sul social che oggi prende il nome di X e che molti ancora riconoscono col suo vecchio appellativo “Twitter”. Un video quel giorno catturò la mia attenzione: un utente aveva pubblicato le immagini di un combattimento in cui l’algerina dominava in maniera straripante, riempiendo di pugni la sua avversaria, e le aveva accompagnate da una descrizione secondo cui una pugile transgender stava massacrando le sue avversarie donne ai Giochi Olimpici.
Due fake news in un colpo solo: il torneo olimpico quel giorno non era ancora cominciato e Imane Khelif non è un’atleta transgender. Se però la prima incongruenza mi è balzata subito all’occhio in seguito a una rapida occhiata al calendario del torneo, la seconda mi ha ingannato. Messo fuori strada dalla gigantesca mole di notizie che sbucavano in ogni angolo del web sulle “due pugili trans” alle Olimpiadi, prese sul serio anche da giornalisti di altissimo livello, sportivi e non, ho creduto momentaneamente alla “bufala” e ho pubblicato io stesso un paio di post contrariati sulla decisione del CIO, uno dei quali esprimeva preoccupazione per l’incolumità di Angela Carini, prima avversaria designata di Khelif.
Nel giro di qualche giorno tuttavia ho iniziato a rendermi conto che qualcosa non quadrava. Imane Khelif è nata e cresciuta in Algeria, non esattamente un Paese all’avanguardia in tema di diritti per la comunità LGBT, dove oltretutto non è legalmente possibile ottenere un cambio di genere sessuale sui documenti di identità, neppure a valle di un intervento chirurgico e di una transizione completa. Imane è stata “registrata” come donna sui documenti ufficiali fin dalla nascita e già da ragazzina ha iniziato a prendere parte alle competizioni sportive femminili, segno che è nata con apparato genitale femminile e che chi l’ha definita un’atleta transgender ha detto il falso.
Molto rapidamente, una volta che la precedente teoria si è rivelata del tutto priva di basi fattuali, una nuova narrazione dominante ha preso piede sul web: Imane Khelif sarebbe un’atleta “intersessuale”, caratterizzata da cromosomi di tipo XY ma priva di organi genitali maschili e la sua squalifica agli ultimi mondiali di boxe, decisa dall’IBA nel marzo del 2023 sarebbe legata proprio a questa sua condizione peculiare, accertata per mezzo di un test genetico.
Anche in questo caso, vista la quantità massiccia di fonti concordi, ho creduto inizialmente alla notizia e ho cercato di ragionare di conseguenza. Mentre il resto del mondo si scannava sull’opportunità o meno di ammettere l’algerina ai Giochi, millantando competenze in materia di genetica, biologia e antropologia che farebbero invidia a un’equipe di docenti universitari, io cercavo faticosamente di fare ricerca e di districarmi tra le varie fonti disponibili in un campo assai distante dal mio percorso di studi di ingegnere aerospaziale.
Alla fine, anche grazie ai contributi proposti sul web dal prof. Ranieri Bizzarri dell’Università di Pisa, ho appreso che le differenze prestazionali sportive che si riscontrano in media tra uomini e donne dipendono in maniera preponderante dalla genetica e mi è parso ragionevole concludere, pur con la necessaria dose di dubbio che devo portarmi dietro in virtù della mia incompetenza in materia, che un’atleta caratterizzata da cromosomi di tipo XY, benché priva di organi genitali maschili, abbia in linea di principio un indebito vantaggio sulle sue competitor con cromosomi di tipo XX.
Ancora una volta tuttavia, ciò che sembrava assodato e incontrovertibile si è rivelato privo di riscontri oggettivi. Grazie a un amico, che mi ha girato l’unico documento ufficiale attualmente consultabile sulla famosa squalifica di Imane Khelif e Lin Yu Ting, ho appreso infatti con sgomento che non soltanto l’IBA mantenne il completo riserbo sui risultati specifici dei famosi “test” che determinarono l’esclusione delle due pugili, ma persino la natura stessa dei test non venne esplicitata né rivelata nel comunicato.
A quel punto mi sono cadute le braccia. Buona parte del dibattito pubblico stava ruotando attorno a informazioni indimostrabili e indimostrate, diffuse e sostenute dai vertici di un’organizzazione coinvolta in gravissimi casi di corruzione, presieduta oltretutto dall’oligarca Umar Kremlev, fedelissimo di Vladimir Putin. Vertici che in questo momento storico hanno tutto l’interesse ad alimentare una propaganda atta a dipingere i Paesi occidentali come depravati e decadenti, in contrapposizione alla fantomatica ortodossia valoriale del mondo russo. Un’organizzazione insomma, priva della benché minima credibilità.
Mi dispiace deludere quanti si aspettano di trovare, al termine di questo articolo, una conclusione roboante, netta, perfetta per essere usata come clava nello scontro verbale con lo zio omofobo durante il prossimo cenone natalizio. Ma la verità è che trarre conclusioni salde e incontrovertibili sul presunto vantaggio competitivo di Imane Khelif e Lin Yu Ting, vista l’opacità delle comunicazioni dell’IBA e l’assenza di test specifici da parte del CIO, è semplicemente impossibile.
Resta comunque un problema di fondo, che travalica il singolo caso di queste Olimpiadi e su cui sarà opportuno riflettere, senza preconcetti negli anni a venire. Nella sua comunicazione frenetica degli ultimi giorni il CIO ha lasciato chiaramente intendere, tra le altre cose, che l’unico criterio che intende adottare per determinare il genere degli atleti partecipanti ai Giochi è di tipo legalistico-burocratico: donna è chi risulta tale sul proprio passaporto.
I vertici del Comitato Olimpico Internazionale hanno infatti affermato che una verifica basata su test medici sarebbe “impraticabile” e “discriminatoria”. Si noti bene che tale approccio spalanca le porte della partecipazione ai tornei femminili non soltanto alle atlete, verosimilmente rarissime, identificate come femmine alla nascita nonostante i cromosomi di tipo XY, ma anche ad atlete transessuali il cui Paese di provenienza autorizza sul piano legale il cambio di genere sui documenti.
Ora, se il nostro campo di interesse fosse la filosofia, potremmo passare ore e ore a discutere di come vadano definiti i concetti di “uomo” e “donna” dal punto di vista ontologico e ognuno di noi potrebbe raggiungere le conclusioni più disparate. Ma in questo contesto è indispensabile dotarsi di una massiccia dose di pragmatismo e domandarsi: perché le competizioni sportive prevedono fin dalle loro origini una suddivisione di genere? Se non siamo dell’idea di abolirla, facendo confluire tutti in un unico calderone (idea a occhio e croce estremamente impopolare e minoritaria), dobbiamo riconoscere che l’unica ragione è la disparità di valori atletici che si riscontra mediamente tra uomini e donne. Accettare dunque la partecipazione ai tornei femminili di chi, indipendentemente dal suo aspetto, dai suoi organi genitali e da ciò che c’è scritto sulla sua carta d’identità possiede in sé gli stessi elementi genetici che determinano la disparità di cui sopra, appare illogico e contraddittorio.
Cosa fare dunque e come farlo? Scelgo per il momento di lasciare la domanda in sospeso. In parte perché ritengo di dover studiare ulteriormente il problema e riflettere meglio su tutte le sue implicazioni sportive, etiche e legali. In parte perché dopo circa 1500 parole buona parte di voi avrà già abbandonato lo smartphone nella propria borsa mare preferendo comprensibilmente un tuffo nell’acqua cristallina alle contorte elucubrazioni di un autore che si arrovella su tutto senza emettere quelle sentenze taglienti tanto care ai giornalisti di successo.
Chiudo dunque queste riflessioni con un semplice appello. Se questa vicenda ci ha insegnato qualcosa è che al giorno d’oggi le informazioni distorte e manipolatorie viaggiano alla velocità della luce e possono ferire più di spade acuminate. Imane Khelif e Lin Yu Ting hanno ricevuto nelle ultime settimane migliaia e migliaia di insulti, umiliazioni, attacchi sguaiati e disumanizzanti senza che alcun elemento le dimostrasse colpevoli di alcunché. Non contribuiamo a questo gioco al massacro. Prima di esprimerci col coltello tra i denti su questioni così delicate, approfondiamo il problema, studiamolo a fondo, contiamo fino a dieci e scegliamo con estrema cura i nostri vocaboli. Khelif e Lin conserveranno per tutta la vita le loro medaglie, ma con esse anche le cicatrici che le parole di tanti di noi hanno lasciato sui loro cuori.