Quel filo rosso che lega Fulton, Smith e Magnesi: i pugili non sono persone comuni

Cos’hanno in comune l’americano Stephen Fulton, l’inglese Callum Smith e l’italiano Michael Magnesi? Apparentemente poco o nulla, a parte il fatto di essere tutti e tre pugili professionisti. I loro stili sono diversi, così come diverse sono le loro categorie di peso, i loro punti di forza e le loro storie personali. Eppure le loro ultime performance, esaminate una dopo l’altra, fanno emergere un filo rosso che li unisce, quel filo che conduce a una massima apparentemente banale ma che troppo spesso tendiamo a dimenticare: i pugili non sono persone comuni.

Clint Eastwood lo aveva capito e riuscì a esprimere magnificamente il concetto mettendolo in bocca al personaggio di Eddie “Scrap-Iron” Dupris, interpretato da Morgan Freeman, nel suo film capolavoro “Million Dollar Baby”:

“Se c’è una magia nella boxe è la magia di combattere battaglie al di là di ogni sopportazione, al di là di costole incrinate, reni fatti a pezzi e retine distaccate. È la magia di rischiare tutto per realizzare un sogno che nessuno vede tranne te.”

Ed è proprio perché quel sogno lo vedi soltanto tu, che riesci laddove un uomo comune fallirebbe. È per questo che la tua soglia di sopportazione del dolore, della fatica, delle delusioni e delle batoste che la vita ti riserva senza pietà è di una spanna più alta di quella di chi tra quelle sedici corde non ha mai messo piede. È sempre per questo che continui a stupire, a sorprendere, a lasciare a bocca aperta chi si ostina a darti per spacciato.

A Stephen Fulton era crollato il mondo addosso. Da pugile imbattuto, quotato, prossimo a entrare nella Top 10 delle classifiche P4P compilate dagli esperti, l’americano si era ritrovato a raccogliere i cocci di una carriera fatta a pezzi dalla pesantissima sconfitta subita in Giappone contro il fuoriclasse Naoya Inoue.

La successiva stentata e controversa vittoria contro Carlos Castro aveva spinto molti osservatori, compreso l’autore di questo articolo, a pensare che quest’anno Fulton non avrebbe avuto dentro di sé abbastanza grinta, abbastanza determinazione e abbastanza fiducia per uscire incolume una seconda volta dalle grinfie dell’arrembante Brandon Figueroa, battuto per un soffio quattro anni fa.

Un uomo comune sarebbe salito sul ring pieno di dubbi, frustrato dalle quote dei bookmaker e intimorito dall’eccellente striscia di vittorie del suo avversario. Ma Fulton è un pugile e i pugili non sono persone comuni. E così il 1° febbraio “Cool Boy Steph” ha messo in piedi una delle migliori performance della sua carriera, disinnescando completamente il tenace Figueroa.

Anche il 35enne Callum Smith pareva aver ingoiato un boccone troppo amaro perché potesse digerirlo senza conseguenze. Sgretolato round dopo round dal micidiale picchiatore russo Artur Beterbiev, era divenuto consapevole di non essere attrezzato per competere con i migliori al mondo e di non poter colmare il gap. Non a caso, dopo la cocente sconfitta, erano circolate voci su un possibile ritiro del mediomassimo inglese.

Con quali ambizioni dunque poteva mai recarsi a Riyadh per fronteggiare l’imbattuto e affamato Joshua Buatsi? Sapevo che Smith aveva qualità tecniche sufficienti per imporsi sul suo connazionale, ma credevo che gli sarebbero mancate quelle caratteriali per attraversare l’ennesimo deserto arroventato. Un uomo comune sarebbe andato ad agguantare l’ultima corposa borsa alzando bandiera bianca alla prima difficoltà, ma i pugili non sono persone comuni e Smith ce l’ha ricordato venendo issato in trionfo dopo dodici riprese piene di scambi furibondi.

Ed eccoci al nostro Michael Magnesi, che poco più di un anno fa lasciò gli appassionati italiani atterriti e sgomenti perdendo in modo drammatico, beffardo e doloroso il suo incredibile combattimento con il giapponese Masanori Rikiishi. Un match dominato per larghi tratti dall’atleta italiano, crollato a pochi passi dal traguardo sotto una pioggia di fendenti violentissimi.

Una sconfitta talmente pesante sul piano fisico e su quello mentale, da mettere potenzialmente a repentaglio le sue ambizioni future. E così all’ingresso negli ultimi round della sfida di due mesi fa tra Magnesi e il francese Khalil El Hadri, in tanti tra i tifosi del pugile italiano hanno avuto una sgradevole e inquietante sensazione di déjà vu.

Indietro nel punteggio e surclassato nella fase centrale del combattimento dalla maggior velocità di esecuzione e dalla superiore varietà di colpi di Michael, El Hadri tentò il tutto per tutto nel finale chiudendo l’avversario alle corde e tempestandolo di colpi caricati. Guardavo il match in diretta e sudavo freddo pensando: “Ecco, ci risiamo. Adesso crolla un’altra volta”.

Un uomo comune avrebbe rivisto i fantasmi del catastrofico ultimo round dell’anno scorso. Nella sua mente, ai tratti somatici di El Hadri si sarebbero sovrapposti quelli di Rikiishi, in un crescendo di sfiducia e sconforto. Ma i pugili non sono persone comuni e Magnesi è emerso dalla fase critica come un leone, riuscendo persino a far indietreggiare il rivale nel memorabile undicesimo round per poi stringere i denti negli ultimi tre minuti.

Cambiano le location, i protagonisti, le dinamiche tattiche e tanto altro, ma la lezione di questi e mille altri episodi analoghi è sempre la stessa. Noi che seguiamo il pugilato, lo raccontiamo e cerchiamo di analizzarlo per il grande pubblico, ci dimentichiamo troppo spesso di quanto immensi siano il cuore, il coraggio e la voglia di vincere di chi indossa un paio di guantoni e mette a repentaglio la sua salute salendo quei fatidici gradini per inseguire il proprio sogno. Talmente immensi da spazzare via come un tornado quei pronostici fatti assumendo erroneamente che un pugile sia soltanto un uomo comune.

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