Potrà sembrarvi incredibile, ma c’è stato un tempo in cui era convinzione diffusa, presso gli esperti di pugilato, che i pesi massimi troppo grossi fossero inadatti a eccellere e destinati a essere sconfitti contro avversari d’élite di taglia più ridotta. Roberto Fazi, storico giornalista del settore, che assistette dal vivo a innumerevoli titoli mondiali e fu autore di un enorme numero di pubblicazioni sul pugilato, ne faceva addirittura una questione antropologica, attribuendo ai “giganti” della boxe, oltre ad altri difetti, una carenza di coraggio e determinazione. Ecco un breve estratto di un articolo di Fazi pubblicato sulla rivista italiana “Boxe Ring” nella seconda metà degli anni ’80:
“I precedenti ci dicono che è estremamente difficile che un gigante, un uomo che superi i due metri, sia perfetto come deve esserlo un campione di boxe, che abbia quel determinato scatto, quell’elasticità muscolare, quella velocità nelle braccia, quella scioltezza nelle gambe, quelle doti di incassaggio, quell’indispensabile coraggio, quel fulmineo colpo d’occhio. […] A nostro avviso a un gigante manca sempre una o più d’una delle qualità suddette: quasi sempre non possiede una mobilità adeguata, né una sufficiente scioltezza, oppure la necessaria determinazione e potremmo continuare, nell’ordine, con le doti di incassaggio ecc.”
Fazi, come la storia recente ha dimostrato, aveva torto. Lui, come molti suoi contemporanei, era influenzato dal fatto che a quei tempi l’altezza media della popolazione era significativamente più bassa rispetto a oggi ed essendo rarissimi i “giganti” e ancor più rari quelli tra loro che optavano per la carriera pugilistica, vi era una scarsissima probabilità che venisse fuori un fuoriclasse di altezza e peso “extra large”. Paradossalmente tuttavia, l’evoluzione delle misure umane, col suo impatto sul pugilato e sulla categoria dei pesi massimi in particolare, ha indotto moltissimi appassionati e non pochi addetti ai lavori a cadere nell’errore opposto, sviluppando una concezione antitetica rispetto a quella di Fazi ma altrettanto radicale e altrettanto sbagliata. Si è diffuso infatti il mito secondo cui un peso massimo di 115 o 120 chili abbia un vantaggio enorme, praticamente incolmabile, su un avversario di 100 chili di pari livello. Un vantaggio talmente ampio che renderebbe addirittura iniquo il combattimento, al punto da suggerire la necessità di istituire una nuova categoria di peso per fare in modo che i colossi possano battersi soltanto tra di loro.
Proprio questa filosofia malsana è stata usata come giustificazione dalla WBC per l’introduzione della categoria dei “Bridgerweight”, con limite di peso di circa 101,5 chili. Una decisione clamorosamente contradditoria se si pensa che Deontay Wilder, che è stato in possesso del titolo mondiale WBC dei pesi massimi dal 2015 al 2020, con ben dieci difese vittoriose, ha fatto registrare un peso inferiore a quello menzionato in sei occasioni su dieci. L’inutilità della nuova classe di peso è facilmente intuibile anche guardando i nomi che popolano l’attuale classifica dei Bridgerweight: pugili che per mancanza di qualità non riescono a eccellere nelle categorie dei cruiser e dei massimi e cercano di conquistare un po’ di gloria dove c’è meno concorrenza e meno talento.
Se però è facile comprendere il movente del presidente della WBC Mauricio Sulaiman, mosso da motivazioni puramente economiche e smanioso di porre l’etichetta della sua federazione sotto un maggior numero di sfide titolate, appare sconcertante che nel tranello siano caduti molti addetti ai lavori al punto da sbagliare completamente l’analisi predittiva del recente memorabile match di riunificazione mondiale dei pesi massimi tra Oleksandr Usyk e Tyson Fury. Il telecronista di DAZN Niccolò Pavesi ad esempio si è lasciato andare durante i primi scampoli di combattimento a un’affermazione quanto mai emblematica: “Tra i due pugili ci sono quattro categorie di differenza”. Una frase atta a sottintendere uno squilibrio clamoroso nelle condizioni di partenza, quasi come se ad affrontarsi ci fossero un uomo disarmato e un altro provvisto di fucile. Pavesi ad ogni modo era in ottima compagnia, basti pensare che l’ex campione del mondo dei mediomassimi e dei massimi Michael Moorer aveva presentato il grande incontro come un autentico mismatch, scontato nell’esito e sportivamente iniquo in virtù della differenza eccessiva di stazza tra i due contendenti.
Previsioni e analisi che sono state fatte a pezzi dalla realtà fattuale: sul ring, contrariamente alle aspettative di molti, i chili in più di Tyson Fury non hanno infatti giocato in suo favore. Non lo hanno fatto in termini di potenza e tenuta, giacché i colpi di Usyk hanno prodotto danni assai più significativi rispetto a quelli del suo dirimpettaio, e non l’hanno fatto nemmeno nel clinch, poiché l’ucraino, nelle rare circostanze in cui si è fatto “catturare” dalle braccia chilometriche del rivale, se ne è liberato senza patire conseguenze. Si può invece serenamente affermare che il gap di tonnellaggio abbia avuto, per quanto paradossale possa sembrare ad alcuni, un impatto favorevole al pugile più leggero. Costretto a trasportare sul ring i suoi 120 chili infatti, Fury, dopo essersi mosso con estrema rapidità per sei riprese e mezzo e dopo aver tenuto un workrate molto alto al fine di impedire all’avversario di accorciare la distanza, è diventato progressivamente più statico, meno esplosivo e meno reattivo, mentre Usyk in contemporanea aumentava ritmo e intensità riuscendo a capovolgere le sorti della battaglia.
La lezione che se ne dovrebbe trarre è piuttosto semplice: superati i 100 chili di peso, eventuali differenze di massa non garantiscono automatici vantaggi e svantaggi. Certo, in alcune caratteristiche i “giganti” avranno in media qualcosa in più, ma d’altro canto pagheranno tali benefici col decadimento di altre qualità, dall’agilità, alla rapidità di esecuzione, al gioco di gambe, al fiato. In una sfida tra un pugile di 100 chili e uno di 120 dunque, ipotizzando un livello tecnico similare tra i due, prevarrà chi sarà in grado di sfruttare al meglio i punti di forza del proprio fisico nascondendo o rendendo ininfluenti i punti deboli: nessun mismatch e soprattutto nessuna “categoria di differenza”.
Incredibilmente, non tutti hanno imparato la lezione nonostante quello che è accaduto a Riyad. Fioccano infatti in questi giorni bizzarre analisi secondo cui Tyson Fury avrebbe dovuto presentarsi ancora più pesante, condurre un match d’attacco e cercare di schiacciare Usyk contro le corde. Una strategia suicida che avrebbe portato il Gipsy King a essere crivellato di colpi da ogni angolazione e ad esaurire la benzina nel giro di pochi round per poi restare letteralmente alla mercé del pugile ucraino.
In conclusione è opportuno osservare che il comprovato fallimento delle teorie sulla superiorità indiscutibile dei “supermassimi” ha implicazioni significative, oltre che sull’analisi del tempo presente, anche sull’interpretazione corretta della storia del pugilato. Se infatti Michael Moorer avesse avuto ragione nel giudicare incolmabile il gap fisico tra gli atleti impegnati a Riyad, ne sarebbe derivata un’affascinante conseguenza logica. Avendo Oleksandr Usyk peso e misure antropometriche perfettamente analoghe a quelli di fuoriclasse leggendari come Muhammad Ali e George Foreman, la sua supposta impossibilità a competere con il Gipsy King, se vera, avrebbe reso Tyson Fury il più forte peso massimo di tutti i tempi. Così non è, e oggi possiamo finalmente dire con cognizione di causa che chi sminuiva le possibilità dei grandi pesi massimi del passato di battere i giganti dell’era moderna in virtù del deficit di stazza si sbagliava di grosso.