Quello di Muhamet Qamili, per gli amici “Eti”, è un cuore diviso a metà: da una parte l’affetto per la sua patria d’origine, quell’Albania che ancora oggi lo accoglie a braccia aperte e lo sostiene con enorme trasporto quando vi si reca per combattere; dall’altra il legame ormai indissolubile con l’Italia, Paese che lo ha adottato quando aveva appena cinque anni.
L’allievo dell’ottimo maestro Alessandro El Moety sta acquisendo sempre più popolarità tra gli appassionati di boxe italiani, con il punto esclamativo che è arrivato venti giorni fa, quando Qamili ha bagnato il suo esordio al prestigioso torneo Boxing Grand Prix organizzato dalla WBC e da Riyadh Season superando in grande stile i sedicesimi di finale.
Abbiamo contattato Eti per scoprire qualcosa in più sulla storia, sul suo amore per il pugilato e sugli obiettivi che ha deciso di porsi per il proseguo della sua carriera.
Sei arrivato in Italia quando avevi cinque anni. Cosa ricordi di quel trasferimento da un Paese a un altro? È stato difficile per te ambientarti nella nuova realtà?
Vi dirò la verità: non è stato difficile, perché essendo arrivato quand’ero molto piccolo, la scuola l’ho frequentata tutta qui, fin dall’ultimo anno della scuola d’infanzia. Quindi l’ambientamento non è stato troppo complicato, anche perché quando sono arrivato ho iniziato a frequentare dei ragazzini italiani che vivevano nel quartiere in cui abitavo e così ho imparato rapidamente la lingua. Non ho ricordi di momenti difficili in cui non riuscivo a comunicare con gli altri. È un po’ come se fossi nato qui, perché ricordo poco dei primi anni trascorsi in Albania. Ogni anno ci tornavo d’estate e vi trascorrevo dei mesi interi per stare con i parenti che sono rimasti lì, ma avendo vissuto buona parte dell’infanzia in Italia e avendo qui la mia scuola e i miei amici, mi sentivo più a casa qui che in Albania.
A che età hai deciso di iniziare a praticare pugilato e come l’hanno presa i tuoi genitori?
Quando ho iniziato non avevo ancora compiuto sedici anni. In precedenza avevo giocato a calcio, come la maggior parte dei ragazzini in Italia, poi un giorno quasi per gioco dissi a un amico: “Andiamo a fare una prova in una palestra di pugilato”. Vedevo già gli incontri in televisione, ma in realtà l’intenzione era soltanto quella di praticare uno sport, per non stare a casa senza far niente. Ne ho parlato a casa e mio padre mi ha detto “Se ti piace, vai pure. Vedi un po’ come ti trovi”. Sono entrato subito in empatia con il mio maestro El Moety, che mi segue tuttora; ho iniziato ad allenarmi, ho visto che mi piaceva e in breve tempo ho iniziato a combattere. Da lì si è accesa la fiamma della passione e non c’è mai stato un momento in cui non mi sia sentito vivo.
Sei passato professionista giovanissimo, una scelta piuttosto inconsueta nel nostro Paese. Come mai tanta fretta di batterti nel pugilato “di serie A”?
In verità volevo passare pro persino prima, ma ho dovuto rimandare l’esordio a causa della pandemia di COVID-19. Da dilettante ho fatto tanti match, sia con la Nazionale albanese che con il mio maestro, che mi portava spesso in trasferta a fare tornei insieme ad altri ragazzi. Non avevo la possibilità di essere selezionato per la Nazionale Italiana non avendo la cittadinanza, quindi a diciotto anni, tramite amicizie e conoscenze, ho contattato i responsabili della Nazionale albanese. Loro non avevano fondi sufficienti per mandare i ragazzi a combattere all’estero, quindi mi hanno detto: “Se vuoi partecipare ai tornei, dovrai provvedere alle spese da solo”. Era una cosa che ero già abituato a fare, quindi mi sono detto: “Tanto vale fare gli europei e i mondiali con la Nazionale albanese”. Nel 2018 ho partecipato agli Europei Youth vincendo il bronzo, poi ho preso parte ai Mondiali e ai Giochi Olimpici Giovanili nello stesso anno. Dopo un po’ ho fatto gli Europei Under 22, poi ho deciso che volevo andare alle Olimpiadi oppure passare professionista, le strade che prendevo in considerazione erano soltanto queste due. Non mi andava di perdere altro tempo, anche perché mi è sempre piaciuta l’idea di fare il pugile professionista. Quindi, non essendoci stata la possibilità di partecipare alle qualificazioni olimpiche con l’Albania, mi sono detto “Sai che c’è? È il momento giusto per passare pro.” Avevo all’attivo circa 55 match e mi ero confrontato con gente davvero forte, basti pensare che alle Olimpiadi Giovanili di Buenos Aires ho affrontato l’uzbeko Abdumalik Khalokov, che poi ha vinto la medaglia d’oro a Parigi 2024. Avevo l’esperienza giusta e con il mio maestro ci siamo trovati d’accordo nel fare il grande passo.
Nel tuo secondo match da pro hai affrontato subito un pugile molto valido, Alex Ferramosca, contraddistinto oltretutto da un’esperienza dilettantistica importante. Averlo battuto nettamente ai punti ha fatto crescere le tue ambizioni?
Sì, perché lui era un super campione, uno dei pugili più titolati a quel peso in Italia. Era il match che aspettavamo, perché venendo da una carriera dilettantistica abbastanza dura non mi andava di fare tanti match di rodaggio. Quindi quando si è presentata l’opportunità di partecipare al Trofeo Cinture WBC FPI l’ho colta al volo. Quelli erano i quarti di finale, poi avrei dovuto disputare semifinale e finale, ma purtroppo tutti gli altri avversari si sono ritirati, quindi la sfida con Ferramosca si è rivelata direttamente la finale del torneo. In seguito ho dovuto rassegnarmi a fare i match di rodaggio come tutti gli altri pugili che svolgono la loro carriera in Italia, perché qui troppo spesso non si trovano avversari o i match programmati saltano all’ultimo momento.
Dei 15 match che hai disputato nel professionismo, 4 si svolti in Albania. Trovi differenze significative tra come il pugilato viene vissuto in Italia e in Albania?
Il popolo albanese è più caloroso nei confronti dei suoi atleti. Qua in Italia quando combatti la gente che viene a vederti è quella che ti conosce personalmente; senti strillare soltanto loro. In Albania invece il calore te lo fa sentire anche chi non ti conosce. Lì ho combattuto in eventi importanti. Uno si è svolto all’Air Albania Stadium di Tirana davanti a circa 15mila persone, perché nel main event ha combattuto Florian Marku. Un’altra volta ho fatto il Titolo WBC Youth in piazza e ci saranno state tra le mille e le millecinquecento persone. Tutti gridavano il mio nome; tutti erano contenti che a combattere ci fosse un ragazzo albanese che viveva in Italia e lo stesso è successo ad altri pugili come il mio amico Ermal Hadribeaj, pure lui albanese, che vive a Miami. Il tifo è più caloroso, ti fanno sentire a casa. Qui non c’è lo stesso coinvolgimento da parte del pubblico: se dici in giro che devi combattere ti chiedono se possono venire a vederti senza pagare il biglietto. Lì invece quando si sparge la voce che combatte un ragazzo albanese tutti dicono: “Andiamo a vederlo, andiamo a fare il tifo per lui”.
Come tutti gli altri partecipanti del torneo Boxing Grand Prix, anche tu hai saputo il nome del tuo avversario a ridosso del combattimento. Nel primo round ti abbiamo visto un po’ bloccato: stavi facendo i conti con la tensione del grande appuntamento oppure ti sentivi frenato dal fatto di non conoscere bene il pugile che avevi di fronte?
Avevamo trovato un video di Semonchuk, ma era vecchio di tre o quattro anni e nel pugilato in quel lasso di tempo possono cambiare tante cose. Infatti il mio avversario mi ha sorpreso subito. Avevamo visto che veniva dall’MMA e sapevo che si sarebbe rivelato un pugile duro e che sarebbe venuto in avanti, ma non mi aspettavo quel ritmo pazzesco. Io sono un diesel, sono abituato a partire piano per poi crescere in corso d’opera. Quando ho visto che lui ha iniziato subito a portare colpi a raffica ho pensato: “Ma qua si parte subito così? Siamo tornati ai tempi del dilettantismo?” Il suo approccio mi ha davvero sorpreso. Io ho fatto anche match programmati sulle dieci riprese, quindi sono abituato a gestire le energie e non avevo mai affrontato da professionista un pugile che parte “a cannone”. Persino nei dilettanti generalmente almeno i primi trenta secondi sono di studio. La tensione da parte mia non era tantissima; certo un po’ di emozione c’era, perché mi trovavo a combattere in un contesto importante, però a bloccarmi inizialmente più della tensione è stata la tattica del mio avversario. Poi i consigli del mio maestro sono stati importantissimi per permettermi di raddrizzare il match. Lui da sotto vede cose che tu sul ring non riesci a vedere. In tanti momenti quando lo ascoltavo le mie azioni partivano in maniera naturale. Altre volte non lo ascoltavo e quando poi ho visto il video del match mi sono reso conto che in alcuni momenti mi aveva suggerito proprio la cosa giusta da fare. Un aspetto che mi ha un po’ travolto è stato il fatto che nel minuto di pausa non facessero entrare il maestro sul ring: facevano entrare soltanto il cutman, perché dicevano che così poteva lavorare meglio. Questa cosa mi ha destabilizzato, perché io sono abituato ad avere il mio maestro di fronte a me e a guardarlo in faccia, invece Alessandro mi parlava da dietro e dovevo stare girato a metà tra lui e il cutman per ascoltare i consigli.
Agli ottavi di finale dovrai affrontare Yoni Valverde Jr, match per il quale ti facciamo un enorme in bocca al lupo. Che idea ti sei fatto del tuo prossimo rivale?
È un buon pugile, abile nel lavorare di rimessa. Penso che mi troverò mille volte meglio contro di lui rispetto a come mi sono trovato contro il pugile ucraino. Non dico che si tratti di un match più facile, però io mi trovo meglio nel lavorare con un avversario tecnico perché le traiettorie dei colpi sono quelle classiche e i ritmi sono più bassi. Pure lui è abituato a fare tanti round perché ha già fatto tre match titolati sulle dieci riprese. Non penso abbia una grandissima potenza perché leggendo il record si vede che non ha vinto tante volte per KO. Tecnicamente è un buon pugile, però paradossalmente a me preoccupa di più chi non sa fare il pugilato e si butta dentro con la testa in avanti, usa i gomiti, lega… L’ucraino era bravo a legare, quindi mi intrappolava le braccia e io non riuscivo a lavorare al corpo. Contro il francese mi aspetto un match più bello sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista tattico.
Che obiettivo ti sei posto nel prendere parte a questa splendida manifestazione?
L’obiettivo è vincere il torneo: siamo partiti per quello. Resto con i piedi per terra perché sono un ragazzo umile; non mi piace vantarmi o dire cose che non sono vere. Però guardando tutti gli altri partecipanti, per quanto il livello sia alto, non ho visto dei fenomeni imbattibili. Certo la concentrazione da parte mia dovrà essere molto alta per tutti gli avversari, però non penso ci siano dei fuoriclasse: credo di essere sul loro livello e non c’è un pugile che mi preoccupa particolarmente. Potrò sembrare un po’ presuntuoso nel dare questa risposta, ma vi assicuro che non è così.