Luigi Minchillo: l’inarrestabile Guerriero del Ring

“Mai un passo indietro” è un motto che alcuni pugili potrebbero tranquillamente farsi appuntare sulla carta d’identità alla voce “segni particolari”. Si tratta di quei fighter dal cuore sconfinato che costruiscono le loro vittorie sulla pressione asfissiante, avanzando e colpendo a getto continuo, senza curarsi del blasone dell’avversario che si trovano di fronte. Anche noi italiani abbiamo avuto la fortuna di ammirare tra i nostri esponenti di spicco alcuni picchiatori dotati di questo ardore inesauribile, capaci di rendere ogni match una battaglia, ogni round un saliscendi di emozioni. Fra questi, l’indimenticabile “Guerriero del Ring” Luigi Minchillo merita un posto di rilievo nella memoria di noi appassionati per le emozioni che ci ha saputo regalare, anche al cospetto di fuoriclasse assoluti come Roberto Duran, Thomas Hearns e Mike McCallum.

Se un maledetto aneurisma non l’avesse portato via un anno e mezzo fa, oggi Minchillo avrebbe compiuto 70 anni. Nella speranza di fare cosa gradita ai suoi cari e a tutti coloro che ne hanno ammirato le gesta sportive e le immense qualità umane, riproponiamo oggi un’intervista che Luigi concesse all’autore di questo articolo nel gennaio del 2021.


La prima parte della sua carriera professionistica fu travolgente: dei primi 36 match disputati ne vinse ben 35, laureandosi prima campione italiano e poi campione europeo. Quali sono i suoi ricordi della magica notte di Formia in cui strappò lo scettro continentale al francese Acaries?

È stato un match abbastanza duro. Il francese fino all’ottava ripresa ha lavorato ben poco, ma è venuto fuori negli ultimi tre o quattro round, forse pensando di vincere grazie a un mio calo. Non è stato così e quindi non ci sono stati problemi con il verdetto.

Molti al suo posto, trovandosi a combattere per la prima volta negli Stati Uniti contro un mostro sacro come Roberto Duran avrebbero pensato soltanto a non prenderle. Lei invece fu protagonista di un inizio indiavolato in cui riuscì anche a ferire il fuoriclasse panamense, costringendolo a dieci riprese durissime. Quanto credeva nella vittoria?

Tutte le volte che sono salito sul ring in vita mia l’ho fatto sempre con l’intenzione di vincere. Non mi tiravo mai indietro, anche per il semplice motivo che ero un picchiatore e se un picchiatore decide di scappare per non prendere pugni, allora ha perso ancor prima di salire sul ring. Per cui ero quasi costretto ad adottare una tattica del genere, perché la mia natura era quella e non potevo andare contro la mia natura. Per quanto riguarda quel match in particolare, ho avuto modo di parlarne con lo stesso Roberto Duran l’anno scorso. Lui era venuto in Italia, ospite del Festival dello Sport di Trento, per cui si è presentata l’occasione di rivederlo, questa volta fuori dal ring. Io gli ho detto che era stato scorretto, perché lui lavorava con i pollici: io ho fatto le ultime quattro o cinque riprese senza vederlo, perché lui mi infilava continuamente i pollici negli occhi. Non l’ha fatto solamente con me, lo faceva con tutti: se andate a vedere il match tra Hagler e Duran, vedrete che Hagler ne è uscito con gli occhi tumefatti. Lui l’ha ammesso tranquillamente, ha detto “Io dovevo vincere, quindi combattevo in quella maniera”. Con questo non voglio dire di aver perso per questo motivo. Se avesse combattuto normalmente è probabile che mi avrebbe battuto lo stesso; però se l’avessi potuto vedere un po’ meglio, forse avrei fatto qualcosa di più.

Forse la più grande vittoria della sua carriera fu quella ottenuta a Wembley contro l’ex campione del mondo Maurice Hope. Un match iniziato in salita che però la vide crescere sempre di più fino a dominare le ultime riprese, conservando così il titolo europeo. Quale fu la chiave di quella fantastica ed emozionante rimonta?

La chiave è stata il ritmo. Io basavo tutto sul ritmo. In carriera ho vinto parecchi match per KO pur non avendo il colpo da KO: vincevo perché il mio avversario non ce la faceva più a reggere il mio ritmo. Hope intorno alla nona o decima ripresa era praticamente KO all’impiedi e l’arbitro non è subentrato soltanto perché eravamo a Londra. Se fossimo stati in campo neutro è probabile che avrebbero fermato il combattimento. In ogni caso si è visto chiaramente che lui avesse grande difficoltà nel contenermi.

Un altro match da brividi fu quello contro il picchiatore jugoslavo Marjan Benes: fu una sfida tra due pugili per certi versi simili, entrambi coraggiosi e abituati a dare battaglia. Possiamo dire che il pubblico di San Severo quella notte le diede la spinta decisiva per vincere quella grande battaglia non priva di momenti difficili?

Lui è stato il pugile che mi ha fatto più male. Più di Duran, più di Hearns, più di McCallum… I loro colpi facevano ridere in confronto a quelli di Marijan Benes. Era un vero e proprio Tyson in miniatura, dove toccava lasciava il segno. Per due o tre mesi ho avuto dolori da tutte le parti. Era talmente potente, che aveva le mani piene di vecchie fratture: quando gli stringevi la mano ti accorgevi che era tutta storta, perché la sua potenza era tale da fargli rompere le mani. Il pubblico sicuramente mi ha aiutato, però il suo vero problema è stato che io andavo sempre avanti e infatti nonostante facesse tremendamente male, lui è finito al tappeto e io no. Del resto io mi battevo così sia in casa che in trasferta, anche quando combattevo in Francia o in Inghilterra, non mi preoccupavo del pubblico. Se la gente urlava contro di me, mi dava ancora più carica per farli stare zitti. Con questo non voglio dire che il pubblico non aiuti, ma io riuscivo a trovare le giuste motivazioni a prescindere dal tifo.

La prima chance mondiale arrivò contro un altro campione da Hall of Fame come Thomas Hearns. Fu un match durissimo, in cui ancora una volta lei dimostrò doti di incassatore formidabili, e alla fine del decimo round ci fu per un attimo l’impressione che Hearns stesse abbandonando. Cosa è successo in quei momenti concitati?

È successo che lui si è trovato in un momento in cui nella sua testa ha pensato “Caspita, non riesco a fermalo, basta…”, ha alzato il braccio e se n’è andato via. Gli è venuto istintivo, perché pensava che il match sarebbe stato molto più facile. Quando ha visto che che uno, due, tre, dieci colpi non mi fermavano, e che io continuavo ad andare avanti, si è trovato in un momento nel corso di quella decima ripresa in cui mi ha mandato a fan****, si è girato e se n’è andato verso l’angolo. Non so quante volte l’ho rivista quella ripresa! È stato un gesto molto simile a quello di Roberto Duran contro Sugar Ray Leonard, solo che Duran lo fece perché Leonard non accettava la battaglia, mentre Hearns perché non riusciva a fermarmi. È stato soltanto un attimo, però è capitato. Se l’avessi fatto io avrebbero detto tutti che avevo abbandonato, perché lui era più forte. Invece siccome l’ha fatto lui, dicono che non è possibile.

Anche il secondo tentativo mondiale purtroppo la vide opposto a un autentico fuoriclasse, il fortissimo americano Mike McCallum, che ebbe la meglio dopo 14 intense riprese. Avendo affrontato tre pugili di livello talmente stellare come Duran, Hearns e McCallum, i nostri lettori saranno curiosi di conoscere il suo giudizio: chi tra i tre è stato il più forte?

Il pugile più forte che ho affrontato è stato Thomas Hearns. Con questo non voglio sminuire gli altri, perché anche Mike McCallum si è rivelato un grande campione. Roberto Duran era fortissimo, ma era un peso leggero. Anche se poi è riuscito a diventare campione del mondo anche nei welter, nei superwelter e nei medi, grazie alla sua classe, in quelle categorie non faceva abbastanza male. Uno che a trent’anni si mette dieci chili sulle spalle, non guadagna in potenza. Un ragazzo di quindici anni può crescere anche di dieci o quindici chili diventando adulto, ma una persona di trent’anni come lui che dai leggeri passa ai welter aumentando di sette chili, poi di dieci, poi addirittura di dodici… beh, quella non era muscolatura, quella era ciccia. Lui mangiava, non si regolava e quindi era costretto a salire di categoria. Nonostante questo con i suoi risultati ha dimostrato di essere un grande campione, ma non poteva essere al livello di quelli che facevano veramente male, non ne aveva la struttura fisica.

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