Al termine di ogni anno l’autorevole rivista statunitense The Ring conferisce all’incontro più spettacolare degli ultimi dodici mesi il riconoscimento di Fight Of The Year. 44 anni fa il premio andò meritatamente all’epica battaglia tra il campione del mondo WBC dei mediomassimi di allora, Matthew Saad Muhammad, e l’agguerrito sfidante Yaqui “Indian” Lopez. Era il 13 luglio del 1980 e i due guerrieri diedero vita a una sfida senza respiro risolta dal campione soltanto nel quattordicesimo dei quindici round previsti, al termine di una rimonta da brividi. Facciamo dunque un tuffo nel passato e torniamo con la mente al Great Gorge Playboy Club di McAfee dove ebbe luogo il match.
Yaqui Lopez: il “finto indiano” che voleva fare il matador
Nato nella città messicana di Zacatecas, Lopez visse la sua infanzia a poca distanza da un’arena in cui i matador del posto domavano tori inferociti e crebbe sognando di diventare uno di loro. A 12 anni il piccolo Alvaro – era questo il suo vero nome – si fece prestare una muleta, ovvero il tradizionale panno rosso dei toreri, entrò clandestinamente nell’arena e sfidò uno dei tori che in quel momento vi alloggiavano. Uno stinco perforato e una corsa in ospedale convinsero la sua famiglia a trasferirsi in California, dove Alvaro apprese dopo qualche anno i primi rudimenti della boxe. Benché la sua fisionomia e il suo soprannome possano trarre in inganno, “Indian” Lopez non è un discendente dei nativi americani. Fu il suo manager, dopo averlo portato a un torneo dilettantistico, a escogitare la finta storia per compiacere il pubblico locale, composto da molti nativi americani. Interrogato dai presenti sulle origini del suo pugile, egli inventò che discendesse dal popolo Yaqui, il primo che gli venne in mente in quel momento. Immediatamente esplose il coro “Yaqui! Yaqui! Yaqui!” e il nome Alvaro rimase da allora chiuso in un cassetto.
Matthew Saad Muhammad: l’uomo delle tante trasformazioni
Anche il campione saliva sul ring con un nome diverso da quello originario. Alla nascita egli era Maxwell Antonio Loach ma, divenuto orfano, fu abbandonato da suo fratello sul viale Benjamin Franklin di Philadelphia. La verità sarebbe venuta a galla soltanto molti anni dopo, per merito di un investigatore privato: era stata sua zia a prendere la decisione, dato che non poteva permettersi di mantenere entrambi i nipoti. Le suore del centro cattolico in cui fu portato ribattezzarono il bimbo Matthew Franklin perché Matthew significa “il prescelto” e Franklin lo collegava al luogo del ritrovamento. Quando però il bambino crebbe e divenne campione, la sua conversione all’Islam lo fece diventare infine Matthew Saad Muhammad. Quella del nome non fu l’unica trasformazione di questo atleta che a cavallo degli anni ’70 e ’80 dominò la categoria dei mediomassimi. I giornalisti italiani che lo videro esibirsi a Trieste nel 1976 contro Mate Parlov lo descrissero infatti come un pugile elegante ma privo di pugno, descrizione che cozza clamorosamente con la versione di Saad Muhammad che il mondo avrebbe ammirato negli anni successivi.
Otto riprese di speranza: la partenza sprint dello sfidante
Per tre volte Yaqui Lopez aveva già tentato l’assalto al titolo mondiale e per tre volte era sceso dal ring sconfitto. Se il britannico John Conteh ne aveva messo a nudo l’inesperienza, l’argentino Victor Galidenz aveva dovuto sudare le proverbiali sette camicie per domarlo due volte, imponendosi in entrambi i casi di strettissima misura. Lopez, che è tuttora convinto di essere stato vittima di verdetti ingiusti contro il forte sudamericano, salì dunque sul quadrato con una determinazione feroce per il suo quarto tentativo iridato. Saad Muhammad del resto lo aveva già battuto due anni prima per ferita in uno scontro violentissimo per poi promettergli che gli avrebbe concesso la rivincita quando sarebbe diventato campione del mondo. Il suo rivale aveva dunque mantenuto la promessa e Yaqui sapeva di dover offrire una prova superlativa per sovvertire i pronostici e rovesciare il re dal suo trono. Per otto riprese diede l’impressione di poter compiere l’impresa: alternando sciabola e fioretto e con un sublime controllo della distanza lo sfidante stava infatti conducendo l’incontro perfetto ed era in netto vantaggio ai punti.
Il campione non muore mai: la grande rimonta
Tante volte in carriera Saad Muhammad ha dato la sensazione di essere in procinto di crollare salvo poi risorgere dalle proprie ceneri e andare a prendersi la vittoria con le unghie e con i denti. Anche quella notte di 44 anni fa, il copione fu il medesimo: sovrastato per metà match dal rivale, il campione iniziò la sua lenta ma inesorabile rimonta proprio quando la situazione pareva volgere al peggio, ovvero durante il drammatico e indimenticabile ottavo round. Un Lopez in piena trance agonistica gli aveva scaricato contro tutto il suo arsenale, ma nel farlo aveva consumato una grande quantità di energie e Saad Muhammad ne approfittò. Round dopo round, scambio dopo scambio, il pugile di Philadelphia rosicchiava terreno sui cartellini e sfiancava uno sfidante sempre più stanco e costretto ad “accendersi” soltanto a sprazzi. In prossimità dei “championship round” la sfida era tornata in equilibrio ma il campione, non accontentandosi di puntare al verdetto dei giudici, seppe produrre l’ultima decisiva accelerazione: quattro atterramenti in rapida successione nella quattordicesima ripresa posero fine ai sogni di gloria del “finto indiano” di Zacatecas.
Guerre simili lasciano spesso segni indelebili sul fisico dei pugili che le sostengono. Yaqui Lopez infatti non fu più lo stesso indomabile guerriero; Saad Muhammad invece riuscì ancora per un anno e mezzo a regalare scontri mozzafiato mettendo in fila altre quattro difese vittoriose prima di crollare bruscamente al cospetto di Dwight Muhammad Qawi.