Usyk e Lomachenko: due gemelli diversi. Cosa ha fatto la differenza?

Oleksandr Usyk e Vasyl Lomachenko, oltre alla profonda amicizia che li lega, hanno davvero tanto in comune: entrambi ucraini, entrambi mancini, entrambi straordinariamente tecnici, entrambi campioni olimpici da dilettanti e campioni mondiali da professionisti. Eppure oggi che le loro carriere pugilistiche si avviano verso quella che parrebbe essere la fase conclusiva, il loro status agli occhi di chi segue il pugilato internazionale non è lo stesso.

Usyk è tuttora imbattuto, ha riunificato i titoli mondiali di due categorie di peso ed è al primo posto della classifica P4P stilata dalla prestigiosa rivista statunitense The Ring; Lomachenko invece, pur avendo conquistato cinture mondiali in tre categorie, ha subito tre sconfitte da professionista, non figura tra i migliori 10 pugili al mondo indicati da The Ring e recentemente ha rifiutato il match di riunificazione contro Gervonta Davis che in caso di vittoria avrebbe potuto innalzare in modo considerevole la sua legacy.

Cosa ha fatto dunque la differenza? Come mai, benché il talento di questi due atleti straordinari sia considerato comparabile dagli esperti, uno dei due verrà ricordato come uno dei pugili più forti di sempre mentre l’altro “soltanto” come un ottimo campione? Proviamo a buttare giù quattro ipotesi sui motivi che hanno separato in termini di risultati questi due “gemelli diversi”.

1) La capacità di adattamento

Un pugile professionista che compete ad alti livelli presto o tardi si ritroverà trascinato al di fuori della sua “comfort zone”. Vuoi per lo stile dell’avversario, vuoi per un episodio fortuito, vuoi per un metro arbitrale sgradito, presto o tardi capita a tutti i grandi campioni di trovarsi su un terreno sfavorevole e di doversi adattare molto velocemente per uscirne illesi. A Oleksandr Usyk capitò qualcosa di simile in Lettonia, quando di fronte al folto e indiavolato pubblico di Riga fronteggiò l’idolo locale Mairis Briedis nel 2018. Abituato a essere sempre più veloce dei propri avversari, Usyk si trovò in difficoltà nel venire a capo della stupefacente reattività del pugile lettone che sfruttava i propri eccellenti riflessi per schivare i suoi uno-due e rientrava immediatamente con colpi rapidissimi. L’ucraino si ritrovò in svantaggio a metà match ma non si perse d’animo e riuscì a trovare la mossa tattica vincente per risolvere il rebus: iniziò ad affidarsi a combinazioni di tre colpi portando in scioltezza i primi due e caricando il terzo che spesso trovava il bersaglio. Non altrettanto rapido fu Lomachenko nell’adattarsi al contesto sfavorevole durante il suo primo tentativo mondiale del 2014 contro Orlando Salido. Condizionato dal gap di esperienza e di fisicità (Salido mancò volontariamente il peso), Loma si fece trascinare in una battaglia corpo a corpo rude e caotica mentre il suo body language e le continue lamentele per il metro arbitrale assai permissivo tradivano il suo disagio. L’ucraino, pur tenendo il match in equilibrio, non riuscì a portarlo su binari a lui favorevoli prima dell’ultimo round.

2) La gestione dell’handicap

Ci piace pensare che i grandi pugili siano dei supereroi, sempre in forma smagliante e privi di qualsiasi acciacco, ma ogni tanto è utile ricordare che sono esseri umani anche loro: nel corso della carriera a tutti può capitare di salire sulla ring senza essere al 100%. A quel punto, se l’avversario si rivela un osso duro, devi trovare il modo di gestire l’handicap e conseguire la vittoria. Personalmente ebbi il sospetto che Usyk non fosse al top in vista del match contro Dereck Chisora fin dalla pesatura ufficiale, quando l’ucraino, generalmente imperturbabile, tradiva con sorrisi forzati una tensione per lui inusuale. Impressione avvalorata da ciò che abbiamo visto sul ring, dove Usyk quella sera stentava a proporre il suo noto repertorio. Che sia stata la ruggine legata alla poca attività del periodo precedente o i postumi di infortuni non perfettamente superati non ci è dato sapere; fatto sta che il fuoriclasse era visibilmente appannato: le sue azioni, le sue reazioni, il suo body language facevano pensare a un pugile che non si sente al meglio. Eppure, dopo l’inizio shock, Usyk trovò il modo di prendere in mano le redini dell’incontro in tempo utile e di portarlo a casa. Non altrettanto rapida ed efficace fu la salita in cattedra di Lomachenko contro Teofimo Lopez in un match che l’ucraino decise di sostenere nonostante un problema fisico alla spalla. Loma salì sul ring determinato a farla pagare al rivale per tutto il trash talking dei mesi precedenti, ma dopo aver assaggiato la potenza di Lopez in avvio, la consapevolezza di non essere al 100% unita alla pericolosità del suo dirimpettaio lo paralizzò. Per ben sette round l’ucraino rinunciò di fatto a combattere, accumulando uno svantaggio tale da rendere inutile la pur lodevole reazione successiva. Una rimonta soltanto parziale che aumenta il rimpianto di non aver gettato prima Il cuore oltre l’ostacolo.

3) La neutralizzazione dell’effetto-trasferta

Da che mondo è mondo un pugile impegnato in trasferta non può limitarsi a dimostrare una superiorità striminzita per convincere i giudici. Non dovrebbe essere così naturalmente, ma chiunque abbia mai messo piede tra le sedici corde è consapevole di questa realtà e sa benissimo che per vedersi assegnato il successo in un ambiente ostile occorre imporsi in maniera incontrovertibile. Usyk, che ha disputato lontano da casa un gran numero dei suoi match più importanti, non ha mai dimenticato questa legge non scritta e per evitare qualsiasi controversia ha avuto spesso e volentieri l’accortezza di concludere i suoi combattimenti in maniera estremamente autorevole. Particolarmente impressionante fu a questo proposito il dodicesimo round del suo primo match contro Anthony Joshua, andato in scena a Tottenham, davanti a un pubblico amplissimo e naturalmente tutto dalla parte di AJ. Pur avendo già fatto abbastanza per essere giudicato vincitore da un osservatore neutrale, Usyk diede il meglio di sé proprio negli ultimi tre minuti, portando l’avversario a un soffio dal KO tecnico. Lomachenko non ebbe la stessa lungimiranza nel finale della sua controversa sfida contro Devin Haney: dopo averlo scosso il pugile americano sia nel decimo che nell’undicesimo round, il peso leggero ucraino abbassò inspiegabilmente i ritmi nell’ultima ripresa permettendo così ad Haney di aggiudicarsela su tutti e tre i cartellini. Un errore fatale reso ancora più difficile da digerire dalla spiegazione pubblica dello stesso Loma, che dopo l’incontro ammise di essersi fermato nella convinzione di avere già la vittoria in tasca.

4) La predisposizione a salire di categoria

La storia della boxe ci insegna che non tutti i pugili sono ugualmente predisposti a scalare più categorie di peso mantenendo inalterate le proprie doti migliori. Alcuni riescono a farlo conservando potenza, brillantezza e resistenza ai colpi, altri perdono porzioni significative della loro efficacia e si ritrovano a dover fare i salti mortali per competere contro avversari più grossi. Si pensi ad esempio al celebre Carlos Zarate, tra i più grandi pesi gallo di tutti i tempi, che fu polverizzato da Wilfredo Gomez quando osò mettere il naso tra i pesi supergallo. O a Meldrick Taylor, che dopo aver fatto vedere i sorci verdi all’immenso Julio Cesar Chavez nei superleggeri, si dimostrò inadatto a primeggiare nei pesi welter venendo distrutto in soli quattro round da Terry Norris. Si potrebbero fare molti altri esempi ma il concetto è piuttosto banale: alcuni pugili, portati fuori dal loro peso ideale, fanno più fatica di altri.

Non è il caso di Usyk, che nel passaggio dai cruiser ai massimi si è dimostrato straordinariamente a suo agio nel battagliare contro i migliori colossi della categoria regina, riuscendo a esprimere tutte le sue migliori qualità a dispetto della minor massa corporea. Lomachenko non ha reagito ai passaggi di categoria con la stessa naturalezza: una volta entrato a far parte in pianta stabile dei pesi leggeri ha dovuto rinunciare suo malgrado ad alcuni aspetti caratteristici del suo pugilato, adeguandolo a un contesto che non gli permetteva le stesse azioni mirabolanti che gli riuscivano tra i pesi piuma e superpiuma. Abbiamo visto sempre più raramente Loma usare il piede perno per girare attorno all’avversario e continuare a colpirlo da vicino, lo abbiamo visto costretto a caricare i colpi con molta più veemenza per riuscire a far male e ci siamo resi conto della maggior prudenza che era tenuto ad adottare per non incorrere in brutti guai, proprio lui che negli anni precedenti maramaldeggiava sui suoi rivali con la pipa in bocca. Se non avesse oltrepassato la soglia dei superpiuma probabilmente Lomachenko avrebbe messo in piedi un regno mondiale formidabile affermandosi come uno dei migliori pugili ad aver mai fatto parte della categoria, ma la smania di inseguire i grandi nomi e di fare la storia lo ha spinto nel mare pieno di squali delle 135 libbre da cui non è uscito illeso.

Questione di carattere?

Difficile dire con certezza quale dei quattro fattori che abbiamo cercato di sviscerare sia stato quello più impattante. Di certo salta all’occhio il fatto che, a eccezione dell’ultimo, si tratta di aspetti connessi alla sfera caratteriale e psicologica dei due pugili, tanto che non appare eretico affermare che sia stato proprio il carattere, in ultima analisi, a fare la maggior differenza tra questi due grandi campioni. Quel carattere che ha portato Oleksandr Usyk ad affermare, prima del suo storico match contro Tyson Fury, che ogni singolo step della sua storia di pugile era servito a portarlo lì. Quel carattere che al contrario induce oggi Lomachenko a rinunciare alla sfida contro Gervonta Davis per assenza di motivazioni, preferendo dedicarsi alla famiglia nei restanti mesi di quest’anno.

Comunque stiano le cose, chi vi scrive si augura che questo pezzo non venga interpretato dai lettori come un tentativo di sminuire Vasyl Lomachenko, nei confronti del quale ho sempre nutrito e continuo a nutrire un’ammirazione sincera e profonda. Si tratta piuttosto di un tentativo di razionalizzare quel sentimento di amarezza che si prova nell’analisi di una carriera eccezionale che forse poteva esserlo ancora di più.

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