Arabia Saudita e pugilato: un binomio sorto da poco tempo ma già apparentemente indissolubile. L’ingresso dei capitali arabi nel mondo della boxe ha portato tanti cambiamenti, incontrando pochi ostacoli sulla sua strada. Come per magia, promoter che un tempo si comportavano come cane e gatto si sono messi a lavorare fianco a fianco a supporto dell’ormai celebre funzionario saudita Turki Alalshikh e un numero crescente di combattimenti sta trovando posto nella location atipica di Riyad. Come interpretare dunque questa “svolta araba” del pugilato?
La boxe stava davvero per morire?
Se volessimo prestare ascolto a tutti quelli che dai primi anni del ‘900 a oggi hanno dato il pugilato per morto, dovremmo concludere che il nostro amato sport ha più vite del protagonista del film “Highlander” di Russell Mulcahy.
Per quanto sia vero che negli eventi della Riyad Season vi siano stati match di altissima caratura, affermare che nessuno di essi potesse aver luogo senza il contributo dell’Arabia Saudita, appare un’ esagerazione. Non possiamo infatti far finta di ignorare le diverse sfide di spicco a cui abbiamo avuto il piacere di assistere negli anni antecedenti alla cosiddetta “svolta araba”.
Un anno e mezzo fa Terence Crawford ed Errol Spence si sono scontrati per riunificare i titoli mondiali dei pesi welter; qualche anno prima i migliori superleggeri al mondo si sono dati battaglia in una serie di scontri mozzafiato; andando ulteriormente indietro nel tempo ci imbattiamo nell’indimenticabile torneo WBSS dei pesi cruiser e nelle battaglie epocali per il trono dei pesi medi tra Gennady Golovkin e “Canelo” Alvarez.
Oltretutto non è neppur vero che le risorse maneggiate da Turki Alashikh possano sempre fare miracoli. Proprio di recente, il fallimento delle trattative per organizzare Vergil Ortiz vs Jaron Ennis ha dimostrato che la mancanza di volontà di uno dei protagonisti continuerà a essere un ostacolo invalicabile.
Si stava meglio quando si stava peggio? La nostalgia del Titolo Unico
Il passato ispira spesso nostalgia. E così la maggioranza degli appassionati di boxe rimpiange i tempi in cui per ogni categoria di peso esisteva un solo campione e si esalta di fronte alla promessa di Turki Alalshikh di creare una “Super Lega” capace di sottomettere le varie Federazioni Mondiali.
Lasciate però che vi faccia un paio di esempi che dimostrano come delegare ogni decisione a un’unica organizzazione, conferendole potere assoluto su borse e opportunità di ogni pugile del mondo possa avere anche conseguenze negative: quelli di Ezzard Charles e Jake LaMotta.
Charles viene considerato dagli esperti il miglior mediomassimo di tutti i tempi ma non vinse mai il titolo mondiale di categoria! Dal dopoguerra al 1949 conseguì 30 vittorie a fronte di una sola sconfitta (poi vendicata) ma dovette cercare gloria nei massimi perché il campione Gus Lesnevich aveva protettori troppo potenti per essere costretto ad affrontarlo.
Jake LaMotta, uno dei migliori pesi medi di sempre, dovette sottoporsi all’umiliazione di perdere volontariamente contro Billy Fox, perché gli fu assicurato che soltanto così avrebbe ottenuto la chance di battersi per il titolo mondiale…
La figura tragicomica di Turki Alalshikh
Mi auguro che quanto sto per scrivere non venga interpretato come un attacco personale nei confronti dell’alto funzionario saudita, per il quale non nutro alcun risentimento. Solo una volta egli si è reso protagonista di un’azione che ho reputato sgradevole, quando in virtù dei loro precedenti contrasti ha deriso pubblicamente Tim Tszyu dopo la sua ultima sconfitta.
Al netto di quella caduta di stile, ho sempre visto in Alalshikh un uomo che esegue con diligenza e passione i compiti che gli sono stati assegnati. E questo, agli occhi di chi come me è un fan del libro “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” e crede che la qualità con cui ognuno di noi svolge il suo lavoro possa salvare il mondo, ha un peso notevole.
Ciò che rende la figura di Alalshikh comica o tragica (a seconda dello stato d’animo di chi ci riflette), è semmai l’atteggiamento ossequioso di molti addetti ai lavori occidentali, alcuni dei quali addirittura non riescono a scrivere il suo nome senza farlo precedere dal pomposo appellativo di “Sua Eccellenza”. Il che, al di fuori dei confini dell’Arabia Saudita, è un po’ come se io mi facessi chiamare Super Mario.
Comportamenti simili, culminati di recente nell’assurdo conferimento del premio di “uomo dell’anno” da parte della WBC, somigliano a quelli del popolo dello Stato immaginario di Wadiya nei confronti del Dittatore del regista Larry Charles, acclamato e assecondato per il suo ruolo più che per i suoi meriti e per le sue qualità.
Perché non unirsi ai catastrofisti?
I lettori che hanno avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto si staranno chiedendo “Ma se davvero pensi le cose che hai scritto, perché non denunci l’assalto saudita al mondo della boxe come una catastrofe planetaria contro cui occorre battersi con ogni mezzo?”
La risposta è molto semplice: mi sento sufficientemente sicuro del fatto che questo cambiamento, apparentemente epocale, sia perfettamente reversibile e che il mondo della boxe abbia dentro di sé gli antidoti necessari per contrastarne le possibili controindicazioni.
Se i giornalisti di The Ring, ora che la storica rivista è stata acquistata da Turki Alalshikh, dovessero assumere un atteggiamento troppo accomodante nei confronti degli eventi della Riyad Season, spunteranno come funghi siti e riviste alternativi, pronti a dire pane al pane e vino al vino. Se la nascente cupola di potere dovesse ostracizzare pugili, manager e promoter sgraditi, sorgerà nel mondo libero un circuito alternativo pronto ad accogliere gli “esclusi”.
Del resto, il frazionamento attuale delle Federazioni Mondiali è stato reso possibile proprio dal diffondersi dello scontento nei confronti di una struttura monolitica e della sua arbitrarietà. Se i nuovi signori del vapore gestiranno il pugilato da tiranni, subiranno essi stessi l’impatto della sana concorrenza. La Nobile Arte continuerà a esistere e prosperare anche al di fuori di Riyad.
L’ipocrisia di chi invoca le grandi atmosfere
Anni fa un mio amico d’infanzia di nazionalità serba, parlando dei suoi tanti connazionali che si dicevano furibondi per la secessione del Kosovo, constatò con amarezza: “Tre quarti di loro, prima della guerra, in Kosovo non ci erano mai stati e i monumenti di cui si riempiono la bocca li hanno visti solo in fotografia”.
I fan del pugilato che si lagnano dell’atmosfera poco elettrizzante che si respira nelle riunioni in Arabia Saudita mi ricordano i serbi di cui parlava il mio amico. La maggior parte di loro non si degna di assistere a un evento di boxe dal vivo neppure quando si svolge a mezz’ora di strada dalla loro abitazione, ma improvvisamente si sono scoperti strenui difensori del pugilato “fatto in casa”.
Al netto delle ipocrisie individuali comunque, il disappunto legato all’esternalizzazione del prodotto appare più giustificato se espresso dagli appassionati britannici. Nel Regno Unito infatti si è conservata la capacità di far affluire enormi masse di spettatori alle riunioni di boxe, durante le quali si respira un’aria carica di tensione.
Ciò accade meno frequentemente in USA, dove l’afflusso di pubblico è generalmente più modesto e dove gli spettatori spesso arrivano poco prima del main event, lasciando gli spalti semideserti durante il sottoclou. Pensate che al primo combattimento tra Diego Corrales e Jose Luis Castillo, uno dei match più sensazionali di tutti i tempi, assistettero dal vivo appena 5168 persone: meno della metà rispetto alla capienza del Mandalay Bay Resort & Casino di Las Vegas!
Il dilemma etico? È una questione privata!
Qualunque persona adulta, con un minimo di cognizione del mondo in cui vive, sa che in Arabia Saudita i diritti umani vengono regolarmente calpestati e che il turpe assassinio del giornalista Jamal Khashoggi è soltanto uno degli esempi di repressione del dissenso da parte del regime. Come ciò debba riflettersi sui comportamenti di ognuno di noi amanti del pugilato è tuttavia a mio giudizio una questione privata, rispetto alla quale ciascuno risponde soltanto alla sua coscienza.
Benché io sia un grande appassionato di calcio, nel 2022 ho deciso di boicottare interamente l’edizione dei Mondiali tenutasi in Qatar. L’ho fatto come segno di rispetto nei confronti dei troppi lavoratori-schiavi che sono morti per erigere in tempo record gli stadi della manifestazione, ma non ho redarguito i miei amici che si sono goduti lo spettacolo, non ho tolto loro il saluto e non li ho disprezzati.
Oggi sarebbe facile puntare il dito contro chiunque accetti di collaborare in ogni veste coi progetti portati avanti da Turki Alalshikh, denunciandone la supposta immoralità. Ma io stesso potrei essere additato per aver acquistato alcune delle Pay-Per-View della Riyad Season, contribuendo nel mio piccolo al successo del “nuovo corso”. E a sua volta i miei eventuali accusatori avranno qualcosa di cui discolparsi.
Questo gioco al massacro non fa parte di me e della mia cultura. Lascio volentieri le prediche ai preti e ai moralizzatori, di cui in questo mondo vi è già sufficiente abbondanza.