Sgombriamo il campo da ogni equivoco fin dalla prima riga di questo articolo: chi vi scrive non intende affatto paragonare Gervonta Davis e Deontay Wilder sul piano pugilistico. I due atleti americani sono completamente diversi per stile e caratteristiche e il repertorio tecnico di Davis è senza dubbio largamente superiore a quello del suo connazionale. Vi è tuttavia un aspetto, prettamente psicologico, rispetto al quale è possibile tracciare un parallelismo, quantomeno potenziale, tra il Bronze Bomber e il piccolo picchiatore di Baltimora.
Dopo essere diventato campione del mondo nel gennaio del 2015, Deontay Wilder è rimasto sul trono della WBC per più di 5 anni, mettendo in fila con successo ben dieci difese del titolo mondiale. In tutte e dieci le circostanze è salito sul ring da netto favorito ma pur riuscendo ogni volta a conservare lo scettro, diverse sue performance sono state tutt’altro che perfette. Talvolta è finito temporaneamente indietro nel punteggio, talvolta è stato scosso dai colpi del rivale, talvolta ha evidenziato considerevoli lacune tecniche, ma ogni volta la potenza disumana del suo destro gli ha permesso di tirarsi fuori dai guai conservando cintura e imbattibilità.
Questa sequenza di trionfi giunti contro avversari di livello inferiore, pur cementificando lo status di Wilder come peso massimo d’élite della sua epoca, ha avuto anche un impatto significativo e non esattamente benefico sulla psiche del pugile americano. Il Bronze Bomber si è infatti convinto che il suo destro lo avrebbe sempre salvato in ogni circostanza e che le tante imperfezioni del suo game plan fossero sostanzialmente insignificanti e non meritevoli di eccessiva attenzione. Wilder ha genuinamente creduto di non aver più bisogno di migliorare e questa sua convinzione è emersa ripetutamente nel corso delle varie interviste rilasciate alla stampa da campione del mondo. È successo ad esempio a Roma, quando di fronte ai giornalisti italiani ha detto testualmente che la tecnica nei pesi massimi non è poi così importante ed è successo ancora dopo la seconda vittoria sul cubano Luis Ortiz, quando ha affermato che i suoi avversari devono essere perfetti per trentasei minuti mentre a lui basta esserlo per due secondi.
L’idea di Wilder di poter sempre chiudere i giochi in suo favore con un singolo colpo ben assestato gli si è ritorta contro quando il livello della sua opposizione è cresciuto e la sua arma letale si è conseguentemente inceppata. Sprovvisto di quel piano B che verosimilmente giudicava inutile, l’americano si è sciolto come neve al sole di fronte alle difficoltà, tradendo con la sua espressione del volto l’incredulità di chi vede sgretolarsi in breve tempo tutte le proprie certezze.
Come Wilder anche Gervonta Davis, dopo essere diventato campione del mondo per la prima volta nel lontano 2017, ha sempre indotto gli allibratori a stabilire quote molto sbilanciate in suo favore. Ogni volta che è salito sul ring, a prescindere dalla categoria di peso, quasi tutti gli esperti e gli appassionati erano convinti avesse la vittoria in tasca. E a giudicare dall’atteggiamento esibito in molti dei suoi combattimenti, ne era convinto anche lui: workrate estremamente basso, colpi isolati di gran lunga predominanti rispetto alle combinazioni, poca attenzione alla difesa, interi round “regalati” all’avversario sono stati per anni tra i suoi marchi di fabbrica senza che ciò lo abbia mai portato a rischiare seriamente la sconfitta.
Persino nel suo ultimo match contro Frank Martin, in seguito al quale Davis ha ricevuto i meritati elogi di molti addetti ai lavori, il body language dei due pugili è stato decisamente indicativo. Alla tensione palpabile dello sfidante, costantemente preoccupato di commettere l’errore decisivo, ha fatto da contraltare la sicurezza quasi irriverente del campione che, avanzando sempre in linea retta, assorbendo senza battere ciglio i colpi d’incontro del rivale e imprimendo il massimo della potenza nei propri fendenti è apparso sicurissimo di avere la vittoria in pugno, anche dopo aver perso i primi tre round.
Ora la carriera di Gervonta Davis sembra essere vicina ad una svolta. Le trattative con il campione IBF Vasyl Lomachenko paiono a buon punto e sullo sfondo il campione WBC Shakur Stevenson attende con impazienza la sua chance di riunificare i titoli mondiali. Se davvero dovesse battersi con uno dei due pugili sopracitati, Davis si troverebbe per la prima volta da quando è passato pro a condividere il ring con un vero campione e tra affrontare ottimi pugili e affrontare campioni passa tutta la differenza del mondo. Un campione non ti permette di recuperare se gli concedi troppo vantaggio sui cartellini; un campione ti punisce se ti disinteressi della difesa; un campione legge con largo anticipo i colpi caricati a tutto braccio se non li fai precedere da combinazioni veloci; un campione non si fa prendere dal panico al primo colpo duro o alla prima sfuriata: si ricompone e riprende a lavorare.
Tutto ciò lascia pensare che la “versione base” di Gervonta Davis, quella vista tante volte negli ultimi anni, non sia sufficiente per laurearsi campione indiscusso della categoria dei pesi leggeri. Se l’atleta di Baltimora ha davvero contratto la “sindrome di Wilder” e si è convinto che gli basterà alzare i giri del motore per spazzare via pugili formidabili come Lomachenko e Stevenson andrà incontro a un brusco risveglio. Nessuno può escludere tuttavia che al cospetto di tali campioni Davis sia pronto a mostrarci la sua “versione deluxe”: la storia della boxe è infatti piena di esponenti di spicco che erano soliti limitarsi al minimo sindacale nei match “facili” per poi scatenare tutto il loro talento nelle grandi occasioni, da Larry Holmes, a James Toney, a Joe Calzaghe, a tanti altri. Sarà anche il caso di Gervonta Davis? Non ci resta che aspettare per scoprirlo, sperando che l’attesa volga rapidamente al termine!